mercoledì 24 settembre 2025

Narrativa

 

         Il musicista di Dublino



13 commenti:

Silvio Minieri ha detto...

[N. d. B.]
Per motivi tecnici, la pubblicazione di "Il musicista di Dublino" viene rinviata a domani. La connessione è andata in tilt, forse a causa della pioggia abbondante della notte, ed anche la connessione dei miei neuroni è andata in tilt, a causa della mia età avanzata, e non solo quella. Quale altra? Ve lo dico domani. Ciao a tutti, anche da parte di quello splendido Pinscher. – Ora si rende necessaria la risposta alla domanda di eri, rimasta in sospeso. Eccola. L’altra caratteristica, oltre l’età, è data appunto dalla scelta del mio carattere. Come, la scelta del tuo carattere? Quando nel prato delle anime (Platone, mito di Er, Repubblica, X libro), scelsi il mio paradigma, il modello di vita. E qual è? Ai posteri l’ardua sentenza. Non conosci te stesso? Non completamente. In che senso? Non so se ho avuto una vita felice o infelice, fino a quando non morirò, e pertanto solo i miei successori potranno giudicare la mia vita. Così Aristotele, “Etica Nicomachea”. Non è necessario, amico, aspettare fino a quel momento. E perché? Perché te lo posso dare io il giudizio sul paradigma di vita che ti sei scelto, quella volta nel prato delle anime. E quale, dunque? Vuoi proprio saperlo? No, immagino la tua risposta. E qual è? Qualcosa di indicibile e inudibile. Ineludibile, direi. Eh? Ma non ti accorgi di queste tue ridicole rime, rivelatrici del tuo essere fatuo? Come, fatuo? – Fatuo, superficiale, spiritualmente insignificante; frivolo, inconcludente sul piano pratico; vano, privo di consistenza, effimero. E che più? Vedi in fondo: “Vanitas vanitatum”.

Silvio Minieri ha detto...

PROLOGO
Scrivo questo prologo a quasi vent’anni di distanza da quando scrissi il racconto, e confesso che nel rileggere il testo, all’inizio ero abbastanza disorientato, non riconoscendomi in esso. Poi, andando avanti nella lettura, ne ho recuperato il pieno ricordo, tanto da poterne redigere ora anche un breve commento critico. Nel testo originale, dopo i primi tre capitoli, ne avevo ideato un quarto e altri, verosimilmente per continuare la narrazione e comporre un romanzo. In questa prospettiva, il racconto mi appariva incompiuto, come peraltro provava l’aggiunta di brevi note in margine al testo da sviluppare nella storia che andavo ideando. Nel seguito, si sarebbero dovute svolgere delle indagini su un traffico illecito di cuccioli di cani e sulla morte di Elsa Tedeschi, raggomitolando il filo che la legava al fantasma di Claudia, evocato nel testo poetico, autore il Legato, arrangiamento il musicista di Dublino. In tal senso il racconto si sarebbe dovuto svolgere seguendo la trama di un romanzo giallo, ma credo che già allora avevo perso interesse a scrivere un giallo, sentendomi preso più da liriche ispirazioni che dal genio di prose narrative. Infatti, la narrazione si chiude in un’atmosfera quasi di sogno: “Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.” A questo punto, continuare nel racconto significava voler ridurre questa ultima immagine alla rapsodia di un istante poetico, e proseguire con un più appropriato tono narrativo, intessendo la trama di una storia. Questo pensiero allora non mi era chiaro, oggi invece riconosco di avere impresso un sigillo finale alla storia non raccontata, cristallizzata nell’incontro e riunione dei tre personaggi nella comune dimora dell’aldilà. Agli interrogativi che rimangono sugli incroci dei tre personaggi di questa storia e dei loro destini non ha risposto una narrazione di fatti, ma la conclusiva suggestione di un’immagine, direi quasi un simbolo non del come o del perché di quel che accade, ma del definito darsi della vanità degli eventi.

Silvio Minieri ha detto...

IL MUSICISTA DI DUBLINO

1.
Erano entrambi seduti su un divano d’angolo del salone del “Londoner Hotel” di San Silvano sul mare e parlavano tra loro: l’uomo con l’impermeabile bianco, un cinquantenne magro ed asciutto, estrasse dalla tasca sinistra il telefonino e si mise in comunicazione con il maggiore Elsa Tedeschi; l’altro, un uomo apparentemente della stessa età, ma in realtà di qualche anno in più anziano, allungò una mano sul tavolino di vetro davanti a loro e diede un leggero tocco con i polpastrelli alla ceramica del samovar, per saggiarne il grado di calore, ritirandoli però subito lievemente scottato.
“Ci raggiunge qui?” interrogò l’uomo con l’impermeabile bianco, scostando il telefonino dall’orecchio e rivolgendo la domanda al suo vicino. Questi assentì con la testa e si affrettò a dire sì.
“Va bene, Tedeschi, venga: l’aspettiamo” concluse l’altro al telefono; poi chiuse la comunicazione. “Sarà subito qui,” disse ancora, riponendo il cellulare in tasca “abita poco distante.”
Un cameriere portò un vassoio con la zuccheriera, due tazze con piattini per il tè, un piattino con fette di limone e posò il tutto sul tavolino.
“Ancora una tazza” disse l’uomo con l’impermeabile bianco, mentre il cameriere serviva. Era un colonnello dell’Esercito, in servizio presso il Ministero degli Esteri; il suo compagno aveva l’incarico di capo del dipartimento affari militari per le missioni all’estero, nominato direttamente dal ministro, di cui era amico di vecchia data. Alcuni giorni prima, un elicottero dell’aviazione leggera dell’esercito era caduto in prossimità dell’abitato di San Silvano ed il pilota, il giovane capitano Silvestrini, era morto. Era stata nominata una commissione d’inchiesta, guidata dal Legato del Ministro, il capo dipartimento, Romano Antiochia, che ora conversava con il colonnello Alberti, lì nel salone del lussuoso albergo di San Silvano adriatico.
“Credo che possiamo cominciare già domani mattina, con un sopralluogo all’aeroporto di Rosanova di Teramo, presso l’unità elicotteri” disse il legato del ministro. “Senza dubbio” confermò l’ufficiale.

Silvio Minieri ha detto...

In fondo al salone era apparsa una donna alta, la figura slanciata, indossante un impermeabile bianco, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane; si diresse immediatamente verso di loro. Quando la videro avvicinarsi, entrambi gli uomini si alzarono galantemente e si presentarono; quindi, tutti e tre si sedettero. Si era avvicinato anche il cameriere con la terza tazza del tè e si era fermato in piedi, attendendo. “Prego!” esortò il colonnello Alberti, rivolgendo l’invito al cameriere ed indicando la donna. Questa però si schermì, dicendo che non prendeva nulla, data l’ora quasi di cena; comunque, entrambi indicarono al servente di posare la tazza sul tavolino. Il legato del ministro intanto saggiò di nuovo con gesto prudente la ceramica del samovar, questa volta con le falangi, rimanendo per alcuni istanti a cogliere la sensazione del calore, che ora sembrava averlo soddisfatto. Infatti, prese la teiera per il manico ed incurante del gesto di diniego, appena abbozzato dall’ufficiale donna, le versò il tè fumante nella tazza, poi lo servì al colonnello Alberti e infine riempì con cura la sua tazza; ripose quindi il samovar, prese il piattino con le fettine di limone e l’offrì prima alla donna, che non prese nulla, poi al suo vicino, che gradì, prese il limone e ringraziò ed infine lo avvicinò a sé e si servì.
Il militare apprezzò molto il linguaggio diplomatico del ministro legato e sorrise compiaciuto, forse pensando inconsciamente a qualche sua promozione ad ufficiale generale. Quindi si alzò e si congedò per l’indomani, riferendo di essere stato invitato a cena da alcuni suoi colleghi ed estendendo l’invito al ministro. Questi si scusò, adducendo di essere indisposto e di avere ordinato la bevanda calda proprio per lenire il mal di testa, si alzò di nuovo, strinse la mano all’ufficiale e lo salutò cordialmente. Anche il maggiore Elsa Tedeschi, la donna ultima sopraggiunta, si alzò e si congedò, con l’intesa di ritrovarsi lì tutti e tre l’indomani mattina alle otto.
Rimasto solo, Antiochia si versò altro tè, ma non sentì il bisogno di zuccherarlo troppo, pensando di avere già la bocca dolce e forse anche un po’ preoccupato di tenere sotto controllo il colesterolo. Sotto il profilo del mal di testa, la bevanda gli parve benefica, sentendosi già cogliere da un sorprendente torpore. Pensò comunque che fosse troppo presto per ritirarsi in camera ed allora si avvicinò al televisore, collocato in un altro angolo della sala, si sedette su una poltrona e cercò di seguire il programma di quiz, che stavano trasmettendo. Il simpatico presentatore aveva letto la domanda: “Chi tra questi scrittori non ha intitolato un suo romanzo “Una vita”: Italo Svevo, Pierpaolo Pasolini, Guy de Maupassant, Ettore Schmitz”?

Silvio Minieri ha detto...

La donna che doveva rispondere, una signora di età matura, magra e bionda, appariva indecisa, poi cominciò a parlare: “Escluderei Pasolini, che mi sembra non abbia scritto “Una vita”; se non erro, un suo libro è intitolato “Una vita violenta” …” Il presentatore aveva messo le braccia conserte e ascoltava con aria sorpresa la concorrente, che continuava a pensare a voce alta: “Però sia Maupassant che Svevo hanno intitolato un loro romanzo “Una vita”: di questo sono sicura, perché quando riferirono a Svevo che il titolo “Una vita” era già stato usato per un romanzo dallo scrittore francese, lui s’intestardì a volere intitolare egualmente il suo libro: “Una vita”, forse pensando che il suo testo avrebbe avuto maggior fortuna, oscurando la fama dell’altro.” La donna si fermò e sorrise di questa sua osservazione, poi cominciò a meditare in silenzio, apparendo fortemente perplessa: “Le risposte esatte sono due, anzi tre, direi, perché Schmitz…”
Il presentatore intervenne, avendo intuito l’equivoco in cui la donna era caduta nella lettura del quiz: “Ma qual è la domanda?”
La donna guardò il pannello. La telecamera inquadrò di nuovo il presentatore: “Attenzione: chi non ha scritto, non ha scritto “Una vita” è la domanda.” Aveva sottolineato il “non”.
“Ah!” esclamò la concorrente. Poi commentò: “Schmitz, mi sembra è il nome… quindi Pasolini. Si, Ettore Schmitz è il vero nome di Italo Svevo, quindi…”
“Quindi la risposta è...?”
Il legato del ministro aveva sonno, chiuse gli occhi e vide il volto di una ragazza dai capelli rossi, con leggere efelidi sul viso, la pelle bianca, il rilucente sguardo degli occhi scuri. Claudia! Rivide il profilo sinuoso della donna con l’impermeabile bianco che stava prima con loro, allontanarsi nel salone. “Le immagini si fondono / e si smarrisce il profilo del tuo volto / dissolto nella luce della notte. /…Claudia.” Un viale d’autunno con le foglie d’oro, il ponte antichissimo sul fiume verde ed oltre la riva, la cupola della chiesa: poi giunsero altre immagini confuse. Il legato del ministro si svegliò e guardò lo schermo televisivo: stavano trasmettendo una partita di calcio. Guardò l’orologio: erano le dieci passate.
Si alzò assonnato, andò al bancone della reception e chiese di essere svegliato per le sette, prese l’ascensore e salì al quarto piano, sentendosi come uno strano sonnambulo. Avvertiva un certo sapore amaro nel palato, forse perché impastato dal sonno e molta spossatezza. In camera bevve due bicchieri d’acqua minerale, ma il senso di fiele non andò via con la sete. Sulla scrivania, annotò su un foglio bianco la scritta: “Claudia, addio!” Si spogliò, indossò in fretta il pigiama e si coricò in uno stato quasi di veglia. Lontano nel tempo, Claudia percorreva il porticato della strada nella luce della sera: una immagine longilinea, l’impermeabile bianco. Ora gli parve vicinissima, riconosceva il suo volto, che aveva le fattezze di quello del maggiore Elsa Tedeschi: le efelidi, la pelle rosea, i capelli rosso amaranto; poi la figura svanì nel buio delle ombre della sera.

Silvio Minieri ha detto...

2.
Il maggiore dell’aviazione leggera dell’esercito, Elsa Tedeschi, si presentò puntuale alle otto del mattino del giorno dopo nella hall dell’albergo per rilevare il colonnello Alberti, che infatti comparve qualche minuto dopo. Salutò sorridente e di ottimo umore la collega ed entrambi cominciarono a scambiarsi qualche chiacchiera in attesa del legato del ministro. Alberti era fresco e vivace: si era svegliato presto ed era sceso in tuta ginnica, per andare a compiere la sua quotidiana seduta di jogging mattutino, una decina di chilometri, sul lungomare adriatico invernale. Incontrò qualche sparuto compagno di corsa e qualche altro mattiniero che portava in giro il cane. L’alba era fredda, il mare abbastanza tranquillo, la spiaggia deserta. Rientrò in albergo e dopo la doccia, si recò nel salone per la prima colazione, che consumò abbondante; c’era qualche altro avventore e la televisione accesa che trasmetteva le notizie del telegiornale in sintesi. Alberti si trattenne a leggere le notizie del giornale, sperando di vedere scendere il ministro, ma inutilmente; infine risalì in camera, per essere definitivamente pronto per le otto.
Elsa Tedeschi in divisa color blu avio era forse più appariscente che in abiti civili, data la sua snella figura e la caratteristica foggia dell’uniforme, che prevedeva la camicia e cravatta e la bustina come berretto. Era in piedi nella hall e conversava con Alberti, che indossava lo stesso soprabito bianco della sera precedente. Dopo un po’, prolungandosi l’attesa, decisero di andare a prendere un caffé alla pasticceria “Dominioni” lì vicino. Tornarono dopo una decina di minuti, ma il ministro non era ancora sceso, fuori l’aviere attendeva paziente al posto di guida dell’automezzo militare. Alberti allora si decise e andò ad interrogare l’impiegato della reception; questi gli riferì della sveglia alle sette, chiesta dal ministro e dichiarò di non averlo visto né entrare nella sala della prima colazione né uscire dall’hotel.
“Si sarà attardato” commentò Alberti. Rifletté un istante e poi chiese all’impiegato se potesse telefonargli in camera. L’altro ubbidì prontamente: il telefono squillava a vuoto.
“Il signore non risponde” disse professionalmente l’impiegato, chiudendo la comunicazione.
Alberti si rivolse al maggiore Elsa Tedeschi, che intanto si era avvicinata: “Io direi di far venire un’altra automobile intanto.”
“Non aspettiamo?” interrogò la donna ufficiale.
“Sì, nell’attesa.”
Il maggiore prese il suo telefonino dalla borsa e telefonò al comando, per richiedere l’autovettura. Chiuse la comunicazione e ripose il telefonino; poi informò il colonnello che presto sarebbe giunta un’altra automobile. Dopo una ventina di minuti, in cui i due ufficiali si erano aggirati insieme un po’ per la hall ed un po’ fuori dell’hotel, giunse la seconda autovettura: era un’automobile blu, con autista in abiti civili. Alberti guardò l’orologio: erano quasi le nove. Fece un nuovo tentativo con l’impiegato per chiamare il ministro in camera con il telefono, ma Antiochia non rispondeva: verosimilmente dormiva della grossa.
“Decisamente deve essersi riaddormentato, forse aveva bisogno di riposare” commentò a voce alta il colonnello; l’impiegato abbozzò un sorriso di approvazione. Risoluto, allora, l’ufficiale si allontanò dal bancone della reception, attraversò la hall e raggiunse all’esterno la Tedeschi, che aspettava davanti all’automezzo militare, mostrando nell’atteggiamento l’aspirazione, si potrebbe dire, a venir via dal luogo.
“Deve avere ripreso sonno dopo la sveglia e si è riaddormentato, il ministro: sicuramente dorme come un ghiro. Direi di andare e di attenderlo negli uffici dell’aeroporto: possiamo così cominciare a guardare gli atti riguardanti la disgrazia di Silvestrini.”

Silvio Minieri ha detto...

Il maggiore aveva ascoltato attentamente, sembrava approvare, quindi disse con semplicità: “E non avvertiamo?”
“Ah, certo!” Il colonnello chiamò l’aviere e l’incaricò di riferire il messaggio alla reception del loro recarsi in aeroporto e dell’attesa dell’altra automobile di servizio, a disposizione del ministro. Quindi invitò il maggiore a sedere davanti, a fianco al posto di guida, mentre lui montava dietro. Poco dopo, quando l’aviere tornò, finalmente partirono.
Dopo mezzogiorno, si presentò al “Londoner Hotel” il capitano Barra; il giovane ufficiale era stato lì inviato da Alberti, su richiesta della direzione dell’albergo, che aveva espresso l’esigenza di fornire una riservata e urgente comunicazione agli organi militari in contatto con il ministro.
In breve, il direttore dell’albergo informò il capitano Barra che la donna di servizio al piano, nell’entrare per errore nella stanza del ministro con la chiave passepartout, aveva notato una strana immobilità del dormiente nel letto nella stanza in ombra, per cui aveva precipitosamente informato la direzione, che aveva provveduto ad avvertire subito gli organi militari.
“Forse può trattarsi di un malore?” interrogò il capitano.
“Sa, verso le undici, ha telefonato la moglie del ministro, dalla Spagna. Ha detto al nostro impiegato che il marito non rispondeva al telefonino portatile e che negli uffici dell’aeroporto di San Silvano, dove avrebbe dovuto trovarsi, avevano risposto che il marito era in albergo, forse ancora addormentato nella sua camera..”
“E allora?”
“Bah! Dal centralino hanno passato l’interno della stanza, ma il ministro non rispondeva. La signora allora ha lasciato un messaggio per il marito: era in partenza per Montevideo.”
“Montevideo?”
“Sì, la signora ha detto così.”
“Allora lei ha mandato a vedere?”
“Capitano, quando l’impiegato mi ha rintracciato e si è sentito in dovere di avvertirmi dell’episodio, ho pensato che forse era opportuno… lei capisce?”
“Certo! Quindi che pensa di fare?”
“Io non so; era mio dovere avvertirvi.”
“Certo, certo!”
“Quindi, capitano, lei che fa?”
“Avverto il colonnello” rispose prontamente il giovane ufficiale. Si mosse di un passo e fece la sua comunicazione al suo superiore. Poco dopo, chiuse con un “signorsì”; quindi, si rivolse al direttore dell’albergo e gli comunicò che dovevano andare a controllare in camera.
Poco dopo salirono al piano, dove la donna di servizio sembrava già attenderli, con la chiave pronta. Entrarono cautamente nella stanza in penombra dietro di lei, che sembrava muoversi con più disinvoltura. Il ministro giaceva immobile sul letto, la donna scostò leggermente una tendina e si accostò al letto, dove si erano fermati il capitano e il direttore dell’albergo; questi ultimi, non appena nella stanza si era fatta un po’ di luce, si erano istintivamente ritratti, quasi temendo che il dormiente risvegliandosi li sorprendesse irregolarmente nell’intimità della sua stanza.
Il dormiente invece non si risvegliò, rimase immobile nel suo letto: come presto si resero conto tutti insieme i tre presenti nella stanza, il professor Romano Antiochia, Legato del Ministro degli Affari Esteri, giaceva morto nel suo letto.

Silvio Minieri ha detto...

3.
Elsa Tedeschi giunse alle undici precise all’aeroporto di Fiumicino, lato arrivi, alla guida della sua automobile privata, un’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato. Trovò un parcheggio provvisorio alla lettera “C” e dopo avere dato un’occhiata sbrigativa alla strada, dove non scorse nelle vicinanze nessun vigile urbano, si avviò all’interno della sala dell’aerostazione. All’interno fissò subito l’attenzione sui monitor che indicavano i voli in arrivo e con soddisfazione notò che quello da Dublino era in fase di atterraggio: non le restava che attendere qualche minuto, intervallo di tempo durante il quale non avrebbe avuto necessità di dover spostare l’autovettura, per evitare una qualche contravvenzione. Subito dopo sul monitor fu segnalato che l’aereo da Dublino era definitivamente atterrato ed Elsa Tedeschi si spostò verso la porta interna da cui uscivano i passeggeri in arrivo. Non dovette aspettare a lungo, perché presto riconobbe il maestro D’Anchise, inconfondibile per quella massa di lunghi capelli bianchi, secondo un’immaginaria iconografia di scienziato artista, propria di certe reali figure del passato.
Elsa Tedeschi alzò in alto il braccio agitando la mano ed il maestro D’Anchise presto si avvide del gesto, dirigendosi sorridente verso la donna. Quando le fu vicino e si furono cordialmente salutati, lei tentò inutilmente di togliergli di mano la valigia, che l’anziano musicista ultrasettantenne abilmente difese, inducendola a desistere; la donna allora gli fece strada verso l’uscita, gli domandò del viaggio e se avesse avuto qualche disagio, mostrando di ascoltare con interesse le risposte di circostanza di lui. In breve, furono accanto all’automobile e questa volta Elsa Tedeschi ebbe buon gioco a farsi consegnare la valigia dall’anziano uomo, per riporla senza eccessiva difficoltà nel bagagliaio posteriore.
Era passata una settimana circa dalla morte di Antiochia, una notizia che aveva destato scalpore, quando era trapelata la voce che la causa del decesso poteva attribuirsi ad una forma di avvelenamento e le indagini si erano subito orientate verso il suicidio, per il ritrovamento nella camera d’albergo di quel biglietto d’addio ad una donna di nome Claudia.
Ed invero, due giorni solo dopo il fatto, un alto ufficiale dell’aviazione della Marina Militare, l’ammiraglio di squadra aerea Cerasuolo, incaricato dal Ministro degli Esteri dell’inchiesta sulla morte del suo Legato, si era recato presso l’aeroporto di Rosanova, dove aveva compiuto una ispezione della base; quindi, aveva convocato una riunione finale, a cui furono presenti tra gli altri ufficiali, anche il colonnello Alberti ed il maggiore Elsa Tedeschi. Cerasuolo era seduto alla scrivania e tutti gli altri ascoltavano rispettosamente in piedi. L’ammiraglio, abbastanza corpulento, aveva appoggiato un gomito sul bracciolo della sedia, reggendosi pensoso il mento con la mano ripiegata. Picchiettò con le dita dell’altra mano sul ripiano della scrivania, alzò lo sguardo sui presenti e pose l’interrogativo al suo uditorio: “Claudia, chi è Claudia?” Nessuno rispose ma più d’uno accennò a spostare la testa in direzione del maggiore ElsaTedeschi, l’unica donna presente alla riunione.

Silvio Minieri ha detto...

Cerasuolo la guardò e gli sembrò di cogliere sulle labbra di lei come un impercettibile sorriso, da lui decifrato come di sorpresa; allora scattò sorprendentemente in piedi e pronunciò la sua sentenza: “Suicidio, dunque! Il caso per ora è chiuso, aspettiamo eventuali novità dall’Intelligence.” Quindi si rivolse ai due capitani che avevano istruito il dossier sulla morte di Silvestrini nell’incidente dell’elicottero e li mise a disposizione del colonnello Alberti e del maggiore Tedeschi, per le risultanze della loro inchiesta. Infine, diede ordine a tutti d’informarlo di ogni emergenza al Ministero, dichiarò sciolta la seduta e si allontanò, seguito da tutti gli ufficiali, che lo accompagnarono in cortile fino alla sua autovettura, pronta con alcuni motociclisti di scorta. Prima di andarsene, l’ammiraglio guardò in alto, dove sulle loro teste volteggiava un elicottero, sembrò voler dire qualcosa, ma tacque; poi salì in macchina e partì con il suo seguito di motociclisti.
Più che alle risultanze dell’inchiesta dei due capitani sulla morte del loro collega Silvestrini, il maggiore Tedeschi era interessata alla sorte di Antiochia, meglio ancora del personaggio di una donna senza volto saltato fuori alla sua morte, di cui si aveva come brandello d’indizio soltanto il nome: Claudia. Il suo istinto femminile la spingeva a investigare in quella direzione, indubbiamente mossa da un suo interesse per il defunto Legato del Ministro, di cui senza però essere da lui notata aveva frequentato la segreteria ed appreso qualche voce di corridoio che circolava sul suo conto. Negli ambienti romani, Antiochia era un personaggio con una vita prevalentemente pubblica, al seguito del Ministro degli Esteri, ma Elsa Tedeschi appariva molto interessata al suo privato, per quella tipica forma di curiosità femminile, che comunque non escludeva un proprio tornaconto, data la posizione del soggetto. Ed ora, dopo quella morte così repentina, si sentiva portata ad investigare sulla figura di questa fantomatica donna: Claudia.
Cerasuolo aveva liquidato la faccenda come un affare privato, ma saggiamente aveva lasciato aperta la porta all’Intelligence, di cui però non si sapeva bene chi facesse parte; si era potuto capire soltanto dalle parole dell’ammiraglio che il capo dell’Intelligence doveva presumibilmente essere lui stesso, almeno relativamente a loro ufficiali presenti alla riunione. Elsa Tedeschi sapeva dalle sue frequentazioni ministeriali che Antiochia era in contatto con un musicista di fama, il maestro Vittorio D’Anchise, autore di numerose opere liriche, e sapeva anche, grazie all’amicizia stretta con la segretaria Gabriella, che in quegli ultimi tempi il legato del ministro aveva chiesto al compositore di musicargli alcuni testi poetici. Ecco, doveva venire in possesso di quei testi poetici, che Gabriella Angelini non le aveva saputo o voluto procurare. E allora, già prima della morte del legato era entrata in contatto con D’Anchise, residente a Dublino, ostentando un suo particolare interesse per la musica. Forse il maestro non era del tutto insensibile al fascino femminile, che Elsa Tedeschi indubbiamente possedeva in gran dote, o quantomeno non era riuscito a sottrarsi alle sue lusinghe, ed ora, al rientro in Italia, si lasciava accompagnare docilmente nella sua casa sull’Appia Antica.

Silvio Minieri ha detto...

Quando nel pomeriggio, alla guida della sua autovettura, la donna si avviò di ritorno dalla casa di D’Anchise, percorrendo l’antica consolare, il sole cominciava a tramontare. Si rivide nel salotto in penombra seduta sul divano a leggere il testo che il maestro le aveva gentilmente teso, dopo averlo diligentemente cercato tra le sue carte: “Ecco, signorina, tenga!” Così si era espresso l’anziano compositore nei confronti della donna, che comunque non lasciò trapelare dai tratti del suo volto una sua silenziosa ilarità, suscitatale da quell’appellativo.
Elsa Tedeschi era sposata da oltre dieci anni, ma separata già da più di qualche anno ed in attesa di divorzio o annullamento del matrimonio, essendo ormai quasi acclarato giudizialmente che il marito era affetto da turbe psichiche. In verità, qualche collega del maggiore aveva in certe occasioni sostenuto scherzosamente che forse il marito era indubbiamente oligofrenico, ma che la moglie non doveva avere certo contribuito ad alleviare il male, in riferimento al carattere abbastanza spumeggiante della donna.
“Addio, istanti” era il titolo della canzone di Antiochia, che D’Anchise aveva musicato e che Elsa Tedeschi, intrufolatasi nell’abitazione, in cui l’anziano maestro viveva da solo, leggeva con sorprendente interesse: “Nella luce della notte si dissolve / anche quel tratto di penombra / sotto il portico tra piazza Statuto / e Porta Susa….” Torino! La pista di Claudia conduceva a Torino. Elsa Tedeschi aveva ripiegato il foglietto e lo aveva sveltamente riposto nella borsetta, sotto lo sguardo di D’Anchise.
L’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato percorreva intanto la via Appia antica costeggiando il parco di recente inaugurato dal comune ed intitolato a “Giulia Servilia”, un personaggio dell’antica Urbe, riscoperto dal nuovo vicesindaco di Roma. Nel corso dei suoi studi, il vice primo cittadino, insigne storico e accademico, aveva rintracciato in una fonte inedita di Cicerone il riferimento all’esistenza fino ad allora ignorata di una figlia di Tertullia, matrona romana della gens Julia, che a sua volta si vuole sia figlia naturale di Caio Giulio Cesare e di Servilia Caepionis, nonché sorellastra di Marco Giunio Bruto, il congiurato cesaricida. Come la madre, Giulia Servilia era una donna bellissima, bionda e con gli occhi azzurri, dalla pelle dorata, almeno così la descriveva un’altra fonte successiva a Cicerone, secondo gli studi del vicesindaco, il quale sapeva bene che l’oratore doveva essere già stato ucciso e decapitato, quando Giulia Servilia aveva raggiunto l’età dell’adolescenza.

Silvio Minieri ha detto...

Elsa Tedeschi però non era a conoscenza di tutti questi particolari di storia e cultura che arricchivano il parco, per lei come per la quasi totalità degli abitanti del posto, frequentato per lo più da madri con bambini, accompagnatori o accompagnatrici di cani, appassionati di jogging ed altri occasionali passanti. Quando parcheggiò in un piccolo viale laterale, da cui vi era uno degli accessi al parco “Giulia Servilia”, la donna appariva pensosa. Scese dall’autovettura, la chiuse a chiave e s’incamminò lungo uno dei sentieri principali, costeggiato da due verdi prati; più avanti il sentiero s’inerpicava lungo un boschetto, per spuntare su un’altura, da dove si godeva un’ottima vista su un’ampia parte della zona dell’Appia Antica. Quando vi giunse, Elsa Tedeschi si fermò, si voltò di lato e guardò su una collinetta di fronte non molto lontana, e notò il casale, che appariva come un convento o un’abbazia incompiuta, per le numerose entrate ad arco completamente vuote e deserte. La donna fissò a lungo la costruzione e la immaginò abitata da strani frati o associò questa immagine a qualche suo confuso ricordo di un altrove abbastanza simile alla sua attuale visione; quindi, spostò lo sguardo all’indietro, dove in lontananza, all’inizio del sentiero da lei percorso vide la figura di uno jogger in tuta scura. Si voltò in avanti per riprendere il cammino e vide davanti a sé, accanto ad un piccolo ponticello, un uomo assieme al suo cane, ebbe come una piccola esitazione, poi s’incamminò con passo disinvolto. A metà strada, il cane, un elegante pinscher dal manto rosso cervo, le venne incontro giocoso e le annusò piedi e gambe, girandole intorno, più volte richiamato dal padrone poco distante. Elsa Tedeschi continuò il suo cammino e giunse al ponticello, che attraversò con calma, affrontando poi un leggero pendio in salita; procedeva molto lentamente ed aveva affrontato un viale stretto e secondario del parco; il sole era tramontato da un pezzo e già iniziava il crepuscolo. D’un tratto alla donna parve di udire nel silenzio di quella sua solitudine come un passo ritmato che veniva ad approssimarsi, si voltò, ma nell’incerta luce del giorno declinante non vide nessuno. Sembrò esitare, poi riprese il suo lento cammino lungo lo stretto sentiero in leggera salita, imboccando il tracciato della curva; il rumore del passo ritmato acquistò una maggiore consistenza. Colta da un vago senso di smarrimento, la donna accelerò il passo, poi quando sentì che il rumore cadenzato era divenuto più distinto e prossimo, aumentò ancora l’andatura. Poco dopo si voltò, ma non vide nulla al di qua della curva, sebbene la battuta del passo sul terreno a intervalli regolari la incalzasse da vicino; allora, presa da un’istintiva, ma irrazionale paura, cominciò a correre ed arrivata in cima al sentiero, si voltò affannata: a stento gli sembrò di scorgere nell’ultima grigia luce del crepuscolo, la figura di un uomo che spuntato dalla curva avanzava di corsa. In preda ad un panico ingiustificato, si buttò in una macchia di lato e si raccolse tutta raggomitolata, mugolando sordamente. Lo jogger aveva notato lo scarto laterale di quell’ombra femminile, e quando giunse anche lui in vetta al sentiero rallentò e si fermò a dare un’occhiata di lato, dove gli parve d’intuire nell’ombra la figura raggomitolata della donna, che aveva iniziato a gemere più forte, sentendo il fiato dell’uomo prossimo a lei. Sconcertato, ma anche inquieto, proseguì sbucando in un prato, dove in fondo la cancellata d’ingresso al “Giardino delle fontane” era illuminata dalle luci al neon che erano state accese qualche istante prima. L’uomo avanzò sempre correndo con passo ridotto al centro della radura, poi tornò indietro ed invece di riprendere il declivio nella direzione da cui era giunto, si spostò in un altro viale laterale.

Silvio Minieri ha detto...

Nel buio della sera, Elsa Tedeschi si distolse da quella sua innaturale posizione e rientrò sul sentiero, con l’aria di una persona al risveglio. Sostò guardando il prato che si stendeva davanti a lei e su cui si disegnavano giuochi d’ombra e di luce provocati dall’illuminazione al neon del cancello e del muro di cinta del “Giardino delle fontane”, che occupava un ampio spazio di fondo nel parco “Giulia Servilia”. La donna avanzò nel silenzio con passo esitante, in alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna; poi Elsa Tedeschi proseguì con andatura sempre più regolare e raggiunse infine il cancello chiuso del giardino illuminato. Si spostò di lato e con agile balzo, appoggiandosi ad una delle sbarre di ferro orizzontali della cancellata, saltò aggrappandosi ed aggiustandosi con i gomiti sul muro di cinta. Guardò in fondo alla radura illuminata a giorno e lesse la scritta dell’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, che sormontava la facciata di una costruzione d’angolo. Nella radura, sbucato da un viale buio, che s’intuiva oltre il cerchio di luce, comparve un cane che si dirigeva di corsa al centro; poco dopo si udì il colpo secco di una fucilata ed il cane di colpo stramazzò a terra. Un secondo animale comparve e sempre di corsa si diresse verso il centro; subito dopo un'altra detonazione lacerò il silenzio della sera e nello spiazzo erboso illuminato a giorno, anche il secondo cane cadde abbattuto.
Elsa Tedeschi guardò in direzione della caserma della polizia veterinaria e vide una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Guardò ancora e vide la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. La donna si issò sulle braccia, saltò sul muro di cinta ed un attimo dopo balzò a terra; in quell’istante udì la fucilata e vide il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. Allora, d’istinto, prima s’incamminò e poi prese a correre verso il centro illuminato della radura, sempre più veloce, pazzamente veloce, nell’abbaglio della luce bianca, una corsa folle; poco dopo il rumore secco dello sparo lacerò il silenzio.
Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.

Silvio Minieri ha detto...

VANITAS VANITATUM

Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, "vanità delle vanità, tutto è vanità") è una locuzione latina. Come Nihil sub sole novum, la frase è tratta dalla versione in latino del Qohelet (o Ecclesiaste), un libro sapienziale della Bibbia ebraica e cristiana, in cui ricorre per due volte (Ecclesiaste 1, 2; 12, 8)
Con questa locuzione si apre e si chiude il lungo discorso di Qohelet, che occupa i dodici capitoli del libro omonimo. Qohelet, o Ecclesiaste, uomo saggio e maestro, dopo aver esplorato ogni aspetto della vita materiale, giunge alla conclusione (già preannunciata all'inizio del testo) che tutto è vanità. Il che non deve impedire all'uomo di riconoscere in Dio il creatore e di osservare i suoi comandamenti.
Nei secoli, però, non tutti i lettori hanno condiviso le conclusioni concilianti del commentatore, e il Qohelet è diventato il simbolo di una più radicale negazione del valore di ogni cosa. A reinterpretare l'Ecclesiaste in senso "nichilista" è, per esempio, Giacomo Leopardi, che nel canto “A sé stesso” traduce il Vanitas vanitatum con L'infinita vanità del tutto.

In questa infinita vanità del tutto, è confluito anche il seguito di “Il musicista di Dublino”, in cui sono andato a riprendere un sunto, che qui ripropongo, con la promessa, spero non da marinaio, di svolgere il tema e comporre il romanzo.
Elsa Tedeschi insieme con una sua amica colonnello della polizia nazionale aveva scoperto un traffico illecito di cuccioli di cani provenienti dall’Est, ed entrambe avevano coinvolto una loro collega della polizia veterinaria nelle indagini. Qualcuno aveva tradito e quando era stata fatta irruzione nel campo dove nelle gabbie erano rinchiusi i cuccioli, non avevano trovato nulla di irregolare nei canili. Delusa per il risultato dell’azione, Elsa Tedeschi era partita per Torino, sulle tracce del fantasma di Claudia, ma nella città subalpina aveva incontrato il musicista di Dublino, anziano artista non insensibile al fascino della bellezza femminile. E mentre si andava intessendo una relazione sentimentale tra il D’Anchise e la Tedeschi, quest’ultima aveva fatto conoscenza con un commissario di polizia, stranamente assomigliante al Legato del Ministro defunto a San Silvano a mare, qualche tempo prima.
E qui finisce la prima parte del romanzo ed ha inizio una seconda, di cui però, ora, ho ancora solo una confusa percezione, ma presto schiarirò le ombre.