1. Erano entrambi seduti su un divano d’angolo del salone del “Londoner Hotel” di San Silvano sul mare e parlavano tra loro: l’uomo con l’impermeabile bianco, un cinquantenne magro ed asciutto, estrasse dalla tasca sinistra il telefonino e si mise in comunicazione con il maggiore Elsa Tedeschi; l’altro, un uomo apparentemente della stessa età, ma in realtà di qualche anno in più anziano, allungò una mano sul tavolino di vetro davanti a loro e diede un leggero tocco con i polpastrelli alla ceramica del samovar, per saggiarne il grado di calore, ritirandoli però subito lievemente scottato. “Ci raggiunge qui?” interrogò l’uomo con l’impermeabile bianco, scostando il telefonino dall’orecchio e rivolgendo la domanda al suo vicino. Questi assentì con la testa e si affrettò a dire sì. “Va bene, Tedeschi, venga: l’aspettiamo” concluse l’altro al telefono; poi chiuse la comunicazione. “Sarà subito qui,” disse ancora, riponendo il cellulare in tasca “abita poco distante.” Un cameriere portò un vassoio con la zuccheriera, due tazze con piattini per il tè, un piattino con fette di limone e posò il tutto sul tavolino. “Ancora una tazza” disse l’uomo con l’impermeabile bianco, mentre il cameriere serviva. Era un colonnello dell’Esercito, in servizio presso il Ministero degli Esteri; il suo compagno aveva l’incarico di capo del dipartimento affari militari per le missioni all’estero, nominato direttamente dal ministro, di cui era amico di vecchia data. Alcuni giorni prima, un elicottero dell’aviazione leggera dell’esercito era caduto in prossimità dell’abitato di San Silvano ed il pilota, il giovane capitano Silvestrini, era morto. Era stata nominata una commissione d’inchiesta, guidata dal Legato del Ministro, il capo dipartimento, Romano Antiochia, che ora conversava con il colonnello Alberti, lì nel salone del lussuoso albergo di San Silvano adriatico. “Credo che possiamo cominciare già domani mattina, con un sopralluogo all’aeroporto di Rosanova di Teramo, presso l’unità elicotteri” disse il legato del ministro. “Senza dubbio” confermò l’ufficiale.
In fondo al salone era apparsa una donna alta, la figura slanciata, indossante un impermeabile bianco, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane; si diresse immediatamente verso di loro. Quando la videro avvicinarsi, entrambi gli uomini si alzarono galantemente e si presentarono; quindi, tutti e tre si sedettero. Si era avvicinato anche il cameriere con la terza tazza del tè e si era fermato in piedi, attendendo. “Prego!” esortò il colonnello Alberti, rivolgendo l’invito al cameriere ed indicando la donna. Questa però si schermì, dicendo che non prendeva nulla, data l’ora quasi di cena; comunque, entrambi indicarono al servente di posare la tazza sul tavolino. Il legato del ministro intanto saggiò di nuovo con gesto prudente la ceramica del samovar, questa volta con le falangi, rimanendo per alcuni istanti a cogliere la sensazione del calore, che ora sembrava averlo soddisfatto. Infatti, prese la teiera per il manico ed incurante del gesto di diniego, appena abbozzato dall’ufficiale donna, le versò il tè fumante nella tazza, poi lo servì al colonnello Alberti e infine riempì con cura la sua tazza; ripose quindi il samovar, prese il piattino con le fettine di limone e l’offrì prima alla donna, che non prese nulla, poi al suo vicino, che gradì, prese il limone e ringraziò ed infine lo avvicinò a sé e si servì. Il militare apprezzò molto il linguaggio diplomatico del ministro legato e sorrise compiaciuto, forse pensando inconsciamente a qualche sua promozione ad ufficiale generale. Quindi si alzò e si congedò per l’indomani, riferendo di essere stato invitato a cena da alcuni suoi colleghi ed estendendo l’invito al ministro. Questi si scusò, adducendo di essere indisposto e di avere ordinato la bevanda calda proprio per lenire il mal di testa, si alzò di nuovo, strinse la mano all’ufficiale e lo salutò cordialmente. Anche il maggiore Elsa Tedeschi, la donna ultima sopraggiunta, si alzò e si congedò, con l’intesa di ritrovarsi lì tutti e tre l’indomani mattina alle otto. Rimasto solo, Antiochia si versò altro tè, ma non sentì il bisogno di zuccherarlo troppo, pensando di avere già la bocca dolce e forse anche un po’ preoccupato di tenere sotto controllo il colesterolo. Sotto il profilo del mal di testa, la bevanda gli parve benefica, sentendosi già cogliere da un sorprendente torpore. Pensò comunque che fosse troppo presto per ritirarsi in camera ed allora si avvicinò al televisore, collocato in un altro angolo della sala, si sedette su una poltrona e cercò di seguire il programma di quiz, che stavano trasmettendo. Il simpatico presentatore aveva letto la domanda: “Chi tra questi scrittori non ha intitolato un suo romanzo “Una vita”: Italo Svevo, Pierpaolo Pasolini, Guy de Maupassant, Ettore Schmitz”?
La donna che doveva rispondere, una signora di età matura, magra e bionda, appariva indecisa, poi cominciò a parlare: “Escluderei Pasolini, che mi sembra non abbia scritto “Una vita”; se non erro, un suo libro è intitolato “Una vita violenta” …” Il presentatore aveva messo le braccia conserte e ascoltava con aria sorpresa la concorrente, che continuava a pensare a voce alta: “Però sia Maupassant che Svevo hanno intitolato un loro romanzo “Una vita”: di questo sono sicura, perché quando riferirono a Svevo che il titolo “Una vita” era già stato usato per un romanzo dallo scrittore francese, lui s’intestardì a volere intitolare egualmente il suo libro: “Una vita”, forse pensando che il suo testo avrebbe avuto maggior fortuna, oscurando la fama dell’altro.” La donna si fermò e sorrise di questa sua osservazione, poi cominciò a meditare in silenzio, apparendo fortemente perplessa: “Le risposte esatte sono due, anzi tre, direi, perché Schmitz…” Il presentatore intervenne, avendo intuito l’equivoco in cui la donna era caduta nella lettura del quiz: “Ma qual è la domanda?” La donna guardò il pannello. La telecamera inquadrò di nuovo il presentatore: “Attenzione: chi non ha scritto, non ha scritto “Una vita” è la domanda.” Aveva sottolineato il “non”. “Ah!” esclamò la concorrente. Poi commentò: “Schmitz, mi sembra è il nome… quindi Pasolini. Si, Ettore Schmitz è il vero nome di Italo Svevo, quindi…” “Quindi la risposta è...?” Il legato del ministro aveva sonno, chiuse gli occhi e vide il volto di una ragazza dai capelli rossi, con leggere efelidi sul viso, la pelle bianca, il rilucente sguardo degli occhi scuri. Claudia! Rivide il profilo sinuoso della donna con l’impermeabile bianco che stava prima con loro, allontanarsi nel salone. “Le immagini si fondono / e si smarrisce il profilo del tuo volto / dissolto nella luce della notte. /…Claudia.” Un viale d’autunno con le foglie d’oro, il ponte antichissimo sul fiume verde ed oltre la riva, la cupola della chiesa: poi giunsero altre immagini confuse. Il legato del ministro si svegliò e guardò lo schermo televisivo: stavano trasmettendo una partita di calcio. Guardò l’orologio: erano le dieci passate. Si alzò assonnato, andò al bancone della reception e chiese di essere svegliato per le sette, prese l’ascensore e salì al quarto piano, sentendosi come uno strano sonnambulo. Avvertiva un certo sapore amaro nel palato, forse perché impastato dal sonno e molta spossatezza. In camera bevve due bicchieri d’acqua minerale, ma il senso di fiele non andò via con la sete. Sulla scrivania, annotò su un foglio bianco la scritta: “Claudia, addio!” Si spogliò, indossò in fretta il pigiama e si coricò in uno stato quasi di veglia. Lontano nel tempo, Claudia percorreva il porticato della strada nella luce della sera: una immagine longilinea, l’impermeabile bianco. Ora gli parve vicinissima, riconosceva il suo volto, che aveva le fattezze di quello del maggiore Elsa Tedeschi: le efelidi, la pelle rosea, i capelli rosso amaranto; poi la figura svanì nel buio delle ombre della sera.
2. Il maggiore dell’aviazione leggera dell’esercito, Elsa Tedeschi, si presentò puntuale alle otto del mattino del giorno dopo nella hall dell’albergo per rilevare il colonnello Alberti, che infatti comparve qualche minuto dopo. Salutò sorridente e di ottimo umore la collega ed entrambi cominciarono a scambiarsi qualche chiacchiera in attesa del legato del ministro. Alberti era fresco e vivace: si era svegliato presto ed era sceso in tuta ginnica, per andare a compiere la sua quotidiana seduta di jogging mattutino, una decina di chilometri, sul lungomare adriatico invernale. Incontrò qualche sparuto compagno di corsa e qualche altro mattiniero che portava in giro il cane. L’alba era fredda, il mare abbastanza tranquillo, la spiaggia deserta. Rientrò in albergo e dopo la doccia, si recò nel salone per la prima colazione, che consumò abbondante; c’era qualche altro avventore e la televisione accesa che trasmetteva le notizie del telegiornale in sintesi. Alberti si trattenne a leggere le notizie del giornale, sperando di vedere scendere il ministro, ma inutilmente; infine risalì in camera, per essere definitivamente pronto per le otto. Elsa Tedeschi in divisa color blu avio era forse più appariscente che in abiti civili, data la sua snella figura e la caratteristica foggia dell’uniforme, che prevedeva la camicia e cravatta e la bustina come berretto. Era in piedi nella hall e conversava con Alberti, che indossava lo stesso soprabito bianco della sera precedente. Dopo un po’, prolungandosi l’attesa, decisero di andare a prendere un caffé alla pasticceria “Dominioni” lì vicino. Tornarono dopo una decina di minuti, ma il ministro non era ancora sceso, fuori l’aviere attendeva paziente al posto di guida dell’automezzo militare. Alberti allora si decise e andò ad interrogare l’impiegato della reception; questi gli riferì della sveglia alle sette, chiesta dal ministro e dichiarò di non averlo visto né entrare nella sala della prima colazione né uscire dall’hotel. “Si sarà attardato” commentò Alberti. Rifletté un istante e poi chiese all’impiegato se potesse telefonargli in camera. L’altro ubbidì prontamente: il telefono squillava a vuoto. “Il signore non risponde” disse professionalmente l’impiegato, chiudendo la comunicazione. Alberti si rivolse al maggiore Elsa Tedeschi, che intanto si era avvicinata: “Io direi di far venire un’altra automobile intanto.” “Non aspettiamo?” interrogò la donna ufficiale. “Sì, nell’attesa.” Il maggiore prese il suo telefonino dalla borsa e telefonò al comando, per richiedere l’autovettura. Chiuse la comunicazione e ripose il telefonino; poi informò il colonnello che presto sarebbe giunta un’altra automobile. Dopo una ventina di minuti, in cui i due ufficiali si erano aggirati insieme un po’ per la hall ed un po’ fuori dell’hotel, giunse la seconda autovettura: era un’automobile blu, con autista in abiti civili. Alberti guardò l’orologio: erano quasi le nove. Fece un nuovo tentativo con l’impiegato per chiamare il ministro in camera con il telefono, ma Antiochia non rispondeva: verosimilmente dormiva della grossa. “Decisamente deve essersi riaddormentato, forse aveva bisogno di riposare” commentò a voce alta il colonnello; l’impiegato abbozzò un sorriso di approvazione. Risoluto, allora, l’ufficiale si allontanò dal bancone della reception, attraversò la hall e raggiunse all’esterno la Tedeschi, che aspettava davanti all’automezzo militare, mostrando nell’atteggiamento l’aspirazione, si potrebbe dire, a venir via dal luogo. “Deve avere ripreso sonno dopo la sveglia e si è riaddormentato, il ministro: sicuramente dorme come un ghiro. Direi di andare e di attenderlo negli uffici dell’aeroporto: possiamo così cominciare a guardare gli atti riguardanti la disgrazia di Silvestrini.”
Il maggiore aveva ascoltato attentamente, sembrava approvare, quindi disse con semplicità: “E non avvertiamo?” “Ah, certo!” Il colonnello chiamò l’aviere e l’incaricò di riferire il messaggio alla reception del loro recarsi in aeroporto e dell’attesa dell’altra automobile di servizio, a disposizione del ministro. Quindi invitò il maggiore a sedere davanti, a fianco al posto di guida, mentre lui montava dietro. Poco dopo, quando l’aviere tornò, finalmente partirono. Dopo mezzogiorno, si presentò al “Londoner Hotel” il capitano Barra; il giovane ufficiale era stato lì inviato da Alberti, su richiesta della direzione dell’albergo, che aveva espresso l’esigenza di fornire una riservata e urgente comunicazione agli organi militari in contatto con il ministro. In breve, il direttore dell’albergo informò il capitano Barra che la donna di servizio al piano, nell’entrare per errore nella stanza del ministro con la chiave passepartout, aveva notato una strana immobilità del dormiente nel letto nella stanza in ombra, per cui aveva precipitosamente informato la direzione, che aveva provveduto ad avvertire subito gli organi militari. “Forse può trattarsi di un malore?” interrogò il capitano. “Sa, verso le undici, ha telefonato la moglie del ministro, dalla Spagna. Ha detto al nostro impiegato che il marito non rispondeva al telefonino portatile e che negli uffici dell’aeroporto di San Silvano, dove avrebbe dovuto trovarsi, avevano risposto che il marito era in albergo, forse ancora addormentato nella sua camera..” “E allora?” “Bah! Dal centralino hanno passato l’interno della stanza, ma il ministro non rispondeva. La signora allora ha lasciato un messaggio per il marito: era in partenza per Montevideo.” “Montevideo?” “Sì, la signora ha detto così.” “Allora lei ha mandato a vedere?” “Capitano, quando l’impiegato mi ha rintracciato e si è sentito in dovere di avvertirmi dell’episodio, ho pensato che forse era opportuno… lei capisce?” “Certo! Quindi che pensa di fare?” “Io non so; era mio dovere avvertirvi.” “Certo, certo!” “Quindi, capitano, lei che fa?” “Avverto il colonnello” rispose prontamente il giovane ufficiale. Si mosse di un passo e fece la sua comunicazione al suo superiore. Poco dopo, chiuse con un “signorsì”; quindi, si rivolse al direttore dell’albergo e gli comunicò che dovevano andare a controllare in camera. Poco dopo salirono al piano, dove la donna di servizio sembrava già attenderli, con la chiave pronta. Entrarono cautamente nella stanza in penombra dietro di lei, che sembrava muoversi con più disinvoltura. Il ministro giaceva immobile sul letto, la donna scostò leggermente una tendina e si accostò al letto, dove si erano fermati il capitano e il direttore dell’albergo; questi ultimi, non appena nella stanza si era fatta un po’ di luce, si erano istintivamente ritratti, quasi temendo che il dormiente risvegliandosi li sorprendesse irregolarmente nell’intimità della sua stanza. Il dormiente invece non si risvegliò, rimase immobile nel suo letto: come presto si resero conto tutti insieme i tre presenti nella stanza, il professor Romano Antiochia, Legato del Ministro degli Affari Esteri, giaceva morto nel suo letto.
3. Elsa Tedeschi giunse alle undici precise all’aeroporto di Fiumicino, lato arrivi, alla guida della sua automobile privata, un’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato. Trovò un parcheggio provvisorio alla lettera “C” e dopo avere dato un’occhiata sbrigativa alla strada, dove non scorse nelle vicinanze nessun vigile urbano, si avviò all’interno della sala dell’aerostazione. All’interno fissò subito l’attenzione sui monitor che indicavano i voli in arrivo e con soddisfazione notò che quello da Dublino era in fase di atterraggio: non le restava che attendere qualche minuto, intervallo di tempo durante il quale non avrebbe avuto necessità di dover spostare l’autovettura, per evitare una qualche contravvenzione. Subito dopo sul monitor fu segnalato che l’aereo da Dublino era definitivamente atterrato ed Elsa Tedeschi si spostò verso la porta interna da cui uscivano i passeggeri in arrivo. Non dovette aspettare a lungo, perché presto riconobbe il maestro D’Anchise, inconfondibile per quella massa di lunghi capelli bianchi, secondo un’immaginaria iconografia di scienziato artista, propria di certe reali figure del passato. Elsa Tedeschi alzò in alto il braccio agitando la mano ed il maestro D’Anchise presto si avvide del gesto, dirigendosi sorridente verso la donna. Quando le fu vicino e si furono cordialmente salutati, lei tentò inutilmente di togliergli di mano la valigia, che l’anziano musicista ultrasettantenne abilmente difese, inducendola a desistere; la donna allora gli fece strada verso l’uscita, gli domandò del viaggio e se avesse avuto qualche disagio, mostrando di ascoltare con interesse le risposte di circostanza di lui. In breve, furono accanto all’automobile e questa volta Elsa Tedeschi ebbe buon gioco a farsi consegnare la valigia dall’anziano uomo, per riporla senza eccessiva difficoltà nel bagagliaio posteriore. Era passata una settimana circa dalla morte di Antiochia, una notizia che aveva destato scalpore, quando era trapelata la voce che la causa del decesso poteva attribuirsi ad una forma di avvelenamento e le indagini si erano subito orientate verso il suicidio, per il ritrovamento nella camera d’albergo di quel biglietto d’addio ad una donna di nome Claudia. Ed invero, due giorni solo dopo il fatto, un alto ufficiale dell’aviazione della Marina Militare, l’ammiraglio di squadra aerea Cerasuolo, incaricato dal Ministro degli Esteri dell’inchiesta sulla morte del suo Legato, si era recato presso l’aeroporto di Rosanova, dove aveva compiuto una ispezione della base; quindi, aveva convocato una riunione finale, a cui furono presenti tra gli altri ufficiali, anche il colonnello Alberti ed il maggiore Elsa Tedeschi. Cerasuolo era seduto alla scrivania e tutti gli altri ascoltavano rispettosamente in piedi. L’ammiraglio, abbastanza corpulento, aveva appoggiato un gomito sul bracciolo della sedia, reggendosi pensoso il mento con la mano ripiegata. Picchiettò con le dita dell’altra mano sul ripiano della scrivania, alzò lo sguardo sui presenti e pose l’interrogativo al suo uditorio: “Claudia, chi è Claudia?” Nessuno rispose ma più d’uno accennò a spostare la testa in direzione del maggiore ElsaTedeschi, l’unica donna presente alla riunione.
Cerasuolo la guardò e gli sembrò di cogliere sulle labbra di lei come un impercettibile sorriso, da lui decifrato come di sorpresa; allora scattò sorprendentemente in piedi e pronunciò la sua sentenza: “Suicidio, dunque! Il caso per ora è chiuso, aspettiamo eventuali novità dall’Intelligence.” Quindi si rivolse ai due capitani che avevano istruito il dossier sulla morte di Silvestrini nell’incidente dell’elicottero e li mise a disposizione del colonnello Alberti e del maggiore Tedeschi, per le risultanze della loro inchiesta. Infine, diede ordine a tutti d’informarlo di ogni emergenza al Ministero, dichiarò sciolta la seduta e si allontanò, seguito da tutti gli ufficiali, che lo accompagnarono in cortile fino alla sua autovettura, pronta con alcuni motociclisti di scorta. Prima di andarsene, l’ammiraglio guardò in alto, dove sulle loro teste volteggiava un elicottero, sembrò voler dire qualcosa, ma tacque; poi salì in macchina e partì con il suo seguito di motociclisti. Più che alle risultanze dell’inchiesta dei due capitani sulla morte del loro collega Silvestrini, il maggiore Tedeschi era interessata alla sorte di Antiochia, meglio ancora del personaggio di una donna senza volto saltato fuori alla sua morte, di cui si aveva come brandello d’indizio soltanto il nome: Claudia. Il suo istinto femminile la spingeva a investigare in quella direzione, indubbiamente mossa da un suo interesse per il defunto Legato del Ministro, di cui senza però essere da lui notata aveva frequentato la segreteria ed appreso qualche voce di corridoio che circolava sul suo conto. Negli ambienti romani, Antiochia era un personaggio con una vita prevalentemente pubblica, al seguito del Ministro degli Esteri, ma Elsa Tedeschi appariva molto interessata al suo privato, per quella tipica forma di curiosità femminile, che comunque non escludeva un proprio tornaconto, data la posizione del soggetto. Ed ora, dopo quella morte così repentina, si sentiva portata ad investigare sulla figura di questa fantomatica donna: Claudia. Cerasuolo aveva liquidato la faccenda come un affare privato, ma saggiamente aveva lasciato aperta la porta all’Intelligence, di cui però non si sapeva bene chi facesse parte; si era potuto capire soltanto dalle parole dell’ammiraglio che il capo dell’Intelligence doveva presumibilmente essere lui stesso, almeno relativamente a loro ufficiali presenti alla riunione. Elsa Tedeschi sapeva dalle sue frequentazioni ministeriali che Antiochia era in contatto con un musicista di fama, il maestro Vittorio D’Anchise, autore di numerose opere liriche, e sapeva anche, grazie all’amicizia stretta con la segretaria Gabriella, che in quegli ultimi tempi il legato del ministro aveva chiesto al compositore di musicargli alcuni testi poetici. Ecco, doveva venire in possesso di quei testi poetici, che Gabriella Angelini non le aveva saputo o voluto procurare. E allora, già prima della morte del legato era entrata in contatto con D’Anchise, residente a Dublino, ostentando un suo particolare interesse per la musica. Forse il maestro non era del tutto insensibile al fascino femminile, che Elsa Tedeschi indubbiamente possedeva in gran dote, o quantomeno non era riuscito a sottrarsi alle sue lusinghe, ed ora, al rientro in Italia, si lasciava accompagnare docilmente nella sua casa sull’Appia Antica.
Quando nel pomeriggio, alla guida della sua autovettura, la donna si avviò di ritorno dalla casa di D’Anchise, percorrendo l’antica consolare, il sole cominciava a tramontare. Si rivide nel salotto in penombra seduta sul divano a leggere il testo che il maestro le aveva gentilmente teso, dopo averlo diligentemente cercato tra le sue carte: “Ecco, signorina, tenga!” Così si era espresso l’anziano compositore nei confronti della donna, che comunque non lasciò trapelare dai tratti del suo volto una sua silenziosa ilarità, suscitatale da quell’appellativo. Elsa Tedeschi era sposata da oltre dieci anni, ma separata già da più di qualche anno ed in attesa di divorzio o annullamento del matrimonio, essendo ormai quasi acclarato giudizialmente che il marito era affetto da turbe psichiche. In verità, qualche collega del maggiore aveva in certe occasioni sostenuto scherzosamente che forse il marito era indubbiamente oligofrenico, ma che la moglie non doveva avere certo contribuito ad alleviare il male, in riferimento al carattere abbastanza spumeggiante della donna. “Addio, istanti” era il titolo della canzone di Antiochia, che D’Anchise aveva musicato e che Elsa Tedeschi, intrufolatasi nell’abitazione, in cui l’anziano maestro viveva da solo, leggeva con sorprendente interesse: “Nella luce della notte si dissolve / anche quel tratto di penombra / sotto il portico tra piazza Statuto / e Porta Susa….” Torino! La pista di Claudia conduceva a Torino. Elsa Tedeschi aveva ripiegato il foglietto e lo aveva sveltamente riposto nella borsetta, sotto lo sguardo di D’Anchise. L’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato percorreva intanto la via Appia antica costeggiando il parco di recente inaugurato dal comune ed intitolato a “Giulia Servilia”, un personaggio dell’antica Urbe, riscoperto dal nuovo vicesindaco di Roma. Nel corso dei suoi studi, il vice primo cittadino, insigne storico e accademico, aveva rintracciato in una fonte inedita di Cicerone il riferimento all’esistenza fino ad allora ignorata di una figlia di Tertullia, matrona romana della gens Julia, che a sua volta si vuole sia figlia naturale di Caio Giulio Cesare e di Servilia Caepionis, nonché sorellastra di Marco Giunio Bruto, il congiurato cesaricida. Come la madre, Giulia Servilia era una donna bellissima, bionda e con gli occhi azzurri, dalla pelle dorata, almeno così la descriveva un’altra fonte successiva a Cicerone, secondo gli studi del vicesindaco, il quale sapeva bene che l’oratore doveva essere già stato ucciso e decapitato, quando Giulia Servilia aveva raggiunto l’età dell’adolescenza.
Elsa Tedeschi però non era a conoscenza di tutti questi particolari di storia e cultura che arricchivano il parco, per lei come per la quasi totalità degli abitanti del posto, frequentato per lo più da madri con bambini, accompagnatori o accompagnatrici di cani, appassionati di jogging ed altri occasionali passanti. Quando parcheggiò in un piccolo viale laterale, da cui vi era uno degli accessi al parco “Giulia Servilia”, la donna appariva pensosa. Scese dall’autovettura, la chiuse a chiave e s’incamminò lungo uno dei sentieri principali, costeggiato da due verdi prati; più avanti il sentiero s’inerpicava lungo un boschetto, per spuntare su un’altura, da dove si godeva un’ottima vista su un’ampia parte della zona dell’Appia Antica. Quando vi giunse, Elsa Tedeschi si fermò, si voltò di lato e guardò su una collinetta di fronte non molto lontana, e notò il casale, che appariva come un convento o un’abbazia incompiuta, per le numerose entrate ad arco completamente vuote e deserte. La donna fissò a lungo la costruzione e la immaginò abitata da strani frati o associò questa immagine a qualche suo confuso ricordo di un altrove abbastanza simile alla sua attuale visione; quindi, spostò lo sguardo all’indietro, dove in lontananza, all’inizio del sentiero da lei percorso vide la figura di uno jogger in tuta scura. Si voltò in avanti per riprendere il cammino e vide davanti a sé, accanto ad un piccolo ponticello, un uomo assieme al suo cane, ebbe come una piccola esitazione, poi s’incamminò con passo disinvolto. A metà strada, il cane, un elegante pinscher dal manto rosso cervo, le venne incontro giocoso e le annusò piedi e gambe, girandole intorno, più volte richiamato dal padrone poco distante. Elsa Tedeschi continuò il suo cammino e giunse al ponticello, che attraversò con calma, affrontando poi un leggero pendio in salita; procedeva molto lentamente ed aveva affrontato un viale stretto e secondario del parco; il sole era tramontato da un pezzo e già iniziava il crepuscolo. D’un tratto alla donna parve di udire nel silenzio di quella sua solitudine come un passo ritmato che veniva ad approssimarsi, si voltò, ma nell’incerta luce del giorno declinante non vide nessuno. Sembrò esitare, poi riprese il suo lento cammino lungo lo stretto sentiero in leggera salita, imboccando il tracciato della curva; il rumore del passo ritmato acquistò una maggiore consistenza. Colta da un vago senso di smarrimento, la donna accelerò il passo, poi quando sentì che il rumore cadenzato era divenuto più distinto e prossimo, aumentò ancora l’andatura. Poco dopo si voltò, ma non vide nulla al di qua della curva, sebbene la battuta del passo sul terreno a intervalli regolari la incalzasse da vicino; allora, presa da un’istintiva, ma irrazionale paura, cominciò a correre ed arrivata in cima al sentiero, si voltò affannata: a stento gli sembrò di scorgere nell’ultima grigia luce del crepuscolo, la figura di un uomo che spuntato dalla curva avanzava di corsa. In preda ad un panico ingiustificato, si buttò in una macchia di lato e si raccolse tutta raggomitolata, mugolando sordamente. Lo jogger aveva notato lo scarto laterale di quell’ombra femminile, e quando giunse anche lui in vetta al sentiero rallentò e si fermò a dare un’occhiata di lato, dove gli parve d’intuire nell’ombra la figura raggomitolata della donna, che aveva iniziato a gemere più forte, sentendo il fiato dell’uomo prossimo a lei. Sconcertato, ma anche inquieto, proseguì sbucando in un prato, dove in fondo la cancellata d’ingresso al “Giardino delle fontane” era illuminata dalle luci al neon che erano state accese qualche istante prima. L’uomo avanzò sempre correndo con passo ridotto al centro della radura, poi tornò indietro ed invece di riprendere il declivio nella direzione da cui era giunto, si spostò in un altro viale laterale.
Nel buio della sera, Elsa Tedeschi si distolse da quella sua innaturale posizione e rientrò sul sentiero, con l’aria di una persona al risveglio. Sostò guardando il prato che si stendeva davanti a lei e su cui si disegnavano giuochi d’ombra e di luce provocati dall’illuminazione al neon del cancello e del muro di cinta del “Giardino delle fontane”, che occupava un ampio spazio di fondo nel parco “Giulia Servilia”. La donna avanzò nel silenzio con passo esitante, in alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna; poi Elsa Tedeschi proseguì con andatura sempre più regolare e raggiunse infine il cancello chiuso del giardino illuminato. Si spostò di lato e con agile balzo, appoggiandosi ad una delle sbarre di ferro orizzontali della cancellata, saltò aggrappandosi ed aggiustandosi con i gomiti sul muro di cinta. Guardò in fondo alla radura illuminata a giorno e lesse la scritta dell’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, che sormontava la facciata di una costruzione d’angolo. Nella radura, sbucato da un viale buio, che s’intuiva oltre il cerchio di luce, comparve un cane che si dirigeva di corsa al centro; poco dopo si udì il colpo secco di una fucilata ed il cane di colpo stramazzò a terra. Un secondo animale comparve e sempre di corsa si diresse verso il centro; subito dopo un'altra detonazione lacerò il silenzio della sera e nello spiazzo erboso illuminato a giorno, anche il secondo cane cadde abbattuto. Elsa Tedeschi guardò in direzione della caserma della polizia veterinaria e vide una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Guardò ancora e vide la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. La donna si issò sulle braccia, saltò sul muro di cinta ed un attimo dopo balzò a terra; in quell’istante udì la fucilata e vide il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. Allora, d’istinto, prima s’incamminò e poi prese a correre verso il centro illuminato della radura, sempre più veloce, pazzamente veloce, nell’abbaglio della luce bianca, una corsa folle; poco dopo il rumore secco dello sparo lacerò il silenzio. Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.
4. “Vi sono tre modi di intendere la libertà: come autodeterminazione o auto-causalità; come necessità, che si fonda sullo stesso concetto di autodeterminazione, attribuita però non al singolo, ma alla totalità di cui fa parte: l’ordine naturale, il mondo, la società; come possibilità o scelta, secondo cui la libertà è limitata e condizionata, vale a dire finita.” Andando oltre nella lettura del testo, era spiegata questa terza forma di intendere la libertà: “Mentre le prime due concezioni della libertà hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa appello a questo nucleo, perché intende la libertà come misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso, non è che chi è causa sui o s’identifica con una totalità che è causa sui, ma chi possiede in un grado e misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enunciato il concetto che la libertà consiste in una “giusta misura” (Leggi, 603e); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In questo mito, si dice che le anime, prima di incarnarsi sono condotte a scegliere il modello di vita, a cui poi rimarranno legate. “Per la virtù, annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617e) Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causalità, perciò, non può essere addossata alla divinità è limitata in un senso dalle possibilità oggettive, cioè dai modelli di vita disponibili e in un altro senso dalla motivazione giacché, come dice Platone, “la maggior parte delle anime sceglie secondo la consuetudine della vita precedente” (ibidem, 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale libertà è limitata: 1) dal rango delle possibilità oggettive, che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2) dal rango dei motivi della scelta, che possono ancora ridurre, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto, questo concetto di libertà è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la determinazione dell’uomo da parte delle condizioni, a cui la sua attività risponde, ma non ammette che a partire da tali condizioni la scelta sia infallibilmente prevedibile.” Il dottor Winter chiuse di botto il libro che stava leggendo, “Enciclopedia filosofica”, e guardò verso la porta del suo studio medico, dove in quell’istante qualcuno aveva bussato e aperto, mentre lui diceva “avanti”. Nel riquadro apparvero la sua segretaria e una donna alta, la figura slanciata, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane, Elsa Tedeschi. Winter posò il libro sulla scrivania e si alzò in piedi, mentre Elsa Tedeschi gli andò incontro allungando la mano: “Tedeschi” disse. Winter strinse la mano: “Winter” disse, mentre congedava con lo sguardo la segretaria, che si ritirò chiudendo la porta. “Ci siamo sentiti stamattina per telefono” disse Elsa Tedeschi. “Certo, collega, ti stavo aspettando.” Winter era un colonnello medico, psichiatra, sulla quarantina, e quindi collega del maggiore, entrambi ufficiali superiori, e non era il caso di frapporre distanze, per la differenza di grado. Girò attorno alla scrivania e venne a sedersi di fronte alla donna. “Sono venuta per un consulto psicologico” disse lei. “Un consiglio” corresse lui.. Elsa Tedeschi tacque, abbassando la testa. Winter si alzò, andò all’attaccapanni, prese il camice bianco, lo indossò e andò a sedersi dietro la scrivania. Quindi fece un gesto con la mano come per dire: “Bene, sentiamo.”
Elsa Tedeschi si raccolse sulla sedia, e sporgendosi leggermente in avanti disse: “Dottore, io ho fatto uno strano sogno, accompagnato da un vuoto di memoria.” “Vogliamo parlare prima del sogno o del vuoto di memoria?” disse Winter. Elsa Tedeschi sembrò riflettere, ma subito disse: “Il sogno”. Il dottore ripeté il cenno incoraggiante con la mano, l’invito a parlare. Elsa Tedeschi prese la borsetta che aveva a tracolla, la depose sulle ginocchia, l’aprì e trasse un foglio: “L’ho scritto” disse. Winter la invitò: “Legga.” Elsa Tedeschi cominciò a leggere: “Era pomeriggio, ma il sole tramontava e già iniziava il crepuscolo. Mi sono incamminata sul viale del parco dell’Appia Antica, quando…” s’interruppe e precisò: “Il parco “Giulia Servilia”, quello qui vicino.” “Sì, va bene” disse Winter. Elsa Tedeschi riprese a leggere “mi è sembrato che qualcuno mi seguisse. Allora, ho affrettato il passo, ma dietro di me ho sentito che anche l’altro accelerava, ho cominciato a correre spaventata e mi sono rifugiata in una macchia, a lato del viale, raggomitolandomi, e cercando di trattenere i gemiti. Ho sentito l’altro vicino a me spiarmi, poi si è allontanato.” Elsa Tedeschi smise di leggere, per riprendere fiato. “È finito?” domandò Winter. La donna scosse la testa e riprese a leggere: “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora…” Il dottore aveva leggermente picchiato con le dita sul ripiano della scrivania e fatto un cenno con la mano, per interromperla. “Il “Giardino delle fontane” è l’area del parco, dove c’è una sede della polizia veterinaria,” disse Elsa Tedeschi, come a spiegare un particolare che presumeva il dottore non conoscesse. Winter guardò davanti a sé, poi abbassò lo sguardo e disse: “Sono due scene, è cambiato il quadro, come accade nei sogni.” Quindi, tornò a tornò a fissare un punto davanti a sé, mentre Elsa Tedeschi aspettava con il foglio in mano, infine lui rimise a fuoco la sua interlocutrice. In quella pausa di silenzio, qualcuno bussò e aperta la porta, si affacciò nello studio. Era la moglie del dottore, aveva approfittato della pausa, ed era entrata. Nella sala d’attesa c’era il monitor, collegato alla telecamera interna dello studio. “Accompagno i bambini a nuoto, dopo andiamo a casa, ti aspetto per cena, non tardare.” Quindi, guardò la paziente rivolta verso di lei con il foglio in mano: “Mi scusi l’interruzione, dottoressa” disse. Quindi si rivolse di nuovo al marito: “Beh, ciao”, poi aggiunse: “Scusatemi ancora”, dando un ultimo sguardo alla paziente, prima di ritirarsi e chiudere la porta. Winter fece un gesto, come per esprimere un certo disappunto, poi disse: “Bene dottoressa Tedeschi, continui.”
Elsa Tedeschi posò il foglio sulla scrivania: “Forse è opportuno che lo lasci a lei, così potrà leggerlo con calma, e darmi dopo il suo giudizio.” Winter guardò il foglio sulla scrivania, poi lo prese, e disse: “Mi dica del vuoto di memoria.” “Non ricordo bene quando sono rientrata a casa quella sera” rispose la donna. “La sera del sogno?” interloquì Winter. “Sì,” disse lei. “Quando è successo?” Elsa Tedeschi sembrò riflettere, poi domandò: “La passeggiata nel parco?” Winter accennò di sì. “Una settimana fa, più o meno.” Il dottore rimase ad osservare in silenzio il foglio che aveva preso poco prima, ora giacente a rovescio sulla scrivania, ovviamente non leggeva, pensava. “Quindi il sogno è di una settimana fa?” disse. “Sì,” rispose lei. “E quando l’ha scritto?” domandò lui. “Ho segnato degli appunti, la mattina dopo.” “E ha scritto il testo, prima di venire qui?” interrogò Winter. “Sì, stamattina, dopo averle telefonato.” Il medico rigirò il foglio, limitandosi a dare qualche occhiata allo scritto, poi disse: “Facciamo così, Tedeschi, tu mi scrivi le date e le ore della passeggiata e del sogno, per come le puoi ricostruire, poi me le invii per e-mail.” La donna assentì. “E adesso, scusami un momento.” Winter si alzò e andò alla porta, l’aprì e chiese della prossima visita. La paziente aveva telefonato per confermare che stava arrivando. Winter tornò al suo posto. “Collega Tedeschi, siamo d’accordo?” disse. “Sì, colonnello Winter.” Elsa Tedeschi si alzò, si strinsero la mano, poi la donna si avviò alla porta. “Ci conto,” disse Winter, mentre lei era sulla soglia. La donna sorrise: “Certo, dottore”. E si allontanò, chiudendo la porta dietro di sé. Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo. “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.”
5. Winter ripose il foglio sulla scrivania, si chinò di lato, e dalla base inferiore del mobiletto, prese uno dei libri allineati nella scansia. Cominciò a sfogliarlo, poi ritrovò il passo che gli interessava: “Occorre spiegare perché la delusione ha in generale un carattere astenico, perché nei casi di delusione la nostra intera esistenza non ha più basi salde, ma soltanto un “debole” fondamento. Quando il suo accordo con il mondo viene infranto, la nostra esistenza si sente mancare sotto i piedi e rimane sospesa. L’esser sospesa della nostra esistenza assume necessariamente la direzione verso il basso, è anche possibilità di liberazione, o di ascesa; ma se la delusione continua ad essere delusione, il sentirsi sospesi diventa un vacillare, uno sprofondare, un cadere. Il linguaggio attinge a questa struttura ontologica essenziale, ma ad essa attinge anche l’immaginazione del poeta, e soprattutto il sogno.” Winter mise il segnalibro alla pagina e chiuse il volume. Poi riprese il foglio con la descrizione del sogno di Elsa Tedeschi e rilesse l’ultima riga: “Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto.” Fluttuare in aria, ecco il sentimento dell’esistenza sospesa. Winter assunse l’aria soddisfatta: alla struttura ontologica essenziale, la nostra esistenza, attinge anche il sogno. Il libro che poco prima aveva chiuso era “Sogno ed Esistenza” di Ludwig Binswanger (1930). Bussarono alla porta, la segretaria annunciò l’arrivo della paziente successiva: “Angela Riva”. Una ragazza con i capelli neri lunghi, un elegante vestito scuro con le spalline, che arrivava al di sotto del ginocchio, il trucco del viso e le ciglia ben curate, ma lo sguardo e l’espressione sofferenti, come rivelavano le occhiaie e le labbra serrate. Winter le fece cenno di sedersi, intanto aveva intravisto dietro la segretaria, ferma sulla soglia, la figura di Elsa Tedeschi in piedi nella sala d’attesa. Allora scambiò con la sua collaboratrice un segno d’intesa, che stava a significare un no alla richiesta di pagare la visita da parte della donna. La segretaria, Claudia, assentì, si ritrasse e chiuse la porta. In sala d’attesa, andò a sedersi dietro il bancone della ricezione e comunicò ad Elsa Tedeschi che non doveva fare nessun pagamento, poi continuò a scambiare qualche informazione con lei. Nel frattempo, si sentì un vociare proveniente dallo studio, culminato in un grido: “Ma io sono la vittima!” Le due donne, Claudia e d Elsa Tedeschi, guardarono il monitor, la ragazza era seduta al suo posto e anche il dottore. Claudia scosse la testa, rispondendo allo sguardo interrogativo dell’altra. Angela Riva era stata la protagonista di un caso di cronaca giudiziaria dell’anno precedente. Giovane donna in carriera in un ramo del settore finanziario, sposata con un uomo della sua età, l’intesa con il marito in declino, dopo alcuni anni di matrimonio, aveva preso l’abitudine di andare da sola il fine settimana in discoteca, per rilassarsi dallo stress della vita lavorativa. Una di quelle volte, divenuta l’ultima, era rimasta fino a tardi nella sala da ballo, ed aveva sollecitato lei stessa un passaggio a casa da un amico conosciuto quella sera stessa. L’altro, mentre l’accompagnava a casa, aveva svoltato in una stradina laterale buia, ed approfittando della mancata resistenza dell’amica, dovuto allo stato di ubriachezza, l’aveva violentata. Subito dopo lo stupro, la vittima si era ribellata e aveva aggredito l’assalitore, ma questi l’aveva sbattuta fuori dalla sua autovettura e si era allontanato, lasciandola distesa a terra, in preda alla sbornia. Scoperta da un passante, all’alba, era stata soccorsa e accompagnata all’ospedale, dove era andata a recuperarla il marito. Lo stupratore era stato arrestato e il processo era ancora in corso, i coniugi intanto avevano iniziato una terapia di coppia presso il dottor Winter.
Ultimamente si erano separati, ed ora Angela Riva proseguiva la cura da sola. Si sentì di nuovo che parlava a voce alta e poi gridare: “Ma io sono morta!” Questa volta Elsa Tedeschi ne approfittò per congedarsi: “Arrivederci, Claudia.” Aveva fatto amicizia con la segretaria di Winter, pensava di tornare, ma si allontanava da quell’ambulatorio psichiatrico con un vago senso d’inquietudine. Quando Winter si era informato sul processo penale in corso, lei aveva ripetuto la descrizione della violenza subita e aveva gridato il suo dolore di vittima. Se prima si faceva bella per provocare il desiderio degli uomini, ora aveva rinunciato per sempre a questo suo ruolo, quello di essere pienamente donna. La seduta di terapia di Angela Riva assistita dal dottor Winter durò circa un’ora, a metà lui aveva interrotto l’incontro ed aveva preso un caffè con la segretaria, la paziente aveva rifiutato l’invito a unirsi ed era rimasta seduta al suo posto a fissare il vuoto: un deserto di solitudine e disperazione, l’insopportabile sofferenza dell’anima, la luce nera della depressione. Il medico aveva rinnovato la ricetta dei farmaci antidepressivi e aveva congedato la paziente, impegnandola per la seduta successiva. All’inizio della cura, quando i coniugi si presentavano in coppia, il marito raccontava che ogni volta, come cercava di avvicinarsi a lei, veniva respinto, e quando non lo faceva, lei diceva di essere trascurata, e il commento di Angela Riva era sempre lo stesso: ma io sono la vittima! Un ripetuto grido di dolore irreparabile e di sofferenza continua, che nessuna forma di consolazione avrebbe mai potuto lenire, soltanto una violenza inflitta poteva cancellare una violenza subita. Il freddo tra i due era andato aumentando, alla fine la paziente si era presentata da sola, dopo la rottura, senza però mostrare segni di miglioramento. Nelle sedute seguenti, non avendo più altro da raccontare del suo vissuto, erano aumentati lunghi silenzi di ghiaccio, a cui rispondeva la cura e attenzione di un empatico ascolto del terapeuta. E lei riemergeva dal deserto della sua solitudine con frammentati ricordi di quando era bambina, poi di nuovo silenzio perduto tra quei sogni e visioni, e ancora espressioni di sofferenza nel volto. Angela Riva stava diventando sempre di più, per Winter, oggetto di osservazione e di studio di psichiatria fenomenologica, la sua empatia scemava e prevaleva il distacco della vicinanza, che si esprimeva soltanto come l’immobile linguaggio del corpo. La paziente aveva avvertito questo allontanarsi e sembrava come volersi riaccostare, Winter si alzò dal suo posto, girò attorno alla scrivania e restò in piedi lì davanti: “Adesso devo avere paura anche di lei, dottore?” disse la donna alzando lo sguardo, un amaro sorriso dipinto sul volto. Winter si scostò sorpreso, di nuovo su quel viso l’espressione sofferente, e al medico non restò altro che il silenzio e l’ascolto. Con l’esperienza, lo psicologo aveva imparato a tenere la giusta distanza, per evitare il contagio emotivo, che però andava a discapito della dovuta empatia. Non riusciva a immaginarsi quella ragazza sorridente e felice, forse doveva sospendere la cura.
IL SOGNO DEI FAGIANI Alla fine delle vacanze estive, Winter aveva riaperto l’ambulatorio, dove si recava il pomeriggio. Non aveva avuto più notizie di Elsa Tedeschi, di cui aveva però studiato il caso e tratto le sue conclusioni. La donna aveva fatto realmente una passeggiata nel parco “Giulia Servilia”, il giorno o giorni prima della notte del sogno. Winter si era recato sul posto, per accertare la corrispondenza dei luoghi con il racconto fattone, ed aveva scoperto che non vi era affatto un’area recintata denominata “Giardino delle fontane” né tanto meno una caserma della polizia veterinaria, ma soltanto un’area cani abbastanza limitata. I luoghi della seconda scena del sogno e tutta la storia della corsa dei cani e delle fucilate nella radura illuminata dalla luna, Elsa Tedeschi se li era veramente sognati. Oppure questi ricordi e i particolari fantasticati appartenevano ad altri tempi e ad altri luoghi, verosimilmente alterati nelle immagini oniriche. Questo sogno era un vissuto esistenziale della donna, di cui soltanto lei poteva decifrare il significato concreto. In astratto, lui poteva soltanto concludere che il fluttuare in aria e il passare dalla luce all’ombra, nella parte finale del sogno, come da lei riferito, corrispondeva al passaggio da uno stato euforico ad un successivo stato disforico. Una tale conclusione gli era suggerita dalla teoria del sogno di Binswanger, come aveva già riscontrato e annotato in relazione al fluttuare in aria e poi cadere in basso. Lo psichiatra e filosofo svizzero, inoltre, nel suo saggio, esprime questo cambiamento, oltre che con il movimento direzionale dell’alto e del basso, anche con l’oscurarsi della luce: “Altre volte il rovesciamento di un flusso di vita felice e trionfante in un altro di disagio e di timore, si esprime attraverso lo scomparire dei colori, che prima risplendevano alla luce del sole, e l’oscurarsi della luce e addirittura della vista, come mostra in modo particolarmente evidente il sogno dei fagiani nel “Viaggio in Italia” di Goethe. – Sognai, vale a dire, che io approdava in una barca piuttosto grande, in un’isola fertile, ricca di vegetazione, dove sapevo trovarsi in abbondanza bellissimi fagiani, e tosto mi posi cogli abitanti dell’isola alla caccia di quelli, e ne facemmo larga preda, portandoli nella barca. Erano bensì fagiani, ma in quella guisa che le cose in sogno si trasformano, presentavano code lunghissime, variopinte quanto quelle del pavone, e degli uccelli del paradiso. Li allogammo nella barca, con le teste rivolte all’interno, facendone un mucchio, di cui pendevano le code al di fuori della barca, brillando alla luce del sole in modo meraviglioso, lasciando appena tanto spazio che bastasse al timoniere, ed ai remiganti. Vagammo con quel raro carico sul mare tranquillissimo, ed io stavo pensando a quanti fra miei amici avrei potuto far dono di quegli animali stupendi. Giunto in un porto abbastanza ampio, ingombro di scafi, io mi smarrii nel passare dall’uno all’altro ponte di questi, per cercare un luogo sicuro, dove io potessi approdare con la mia piccola barca.” E Goethe così conclude: “Fallaci visioni nelle quali ci dilettiamo, perché scaturendo da noi stessi, hanno di certo un’analogia con l’insieme della nostra esistenza e dei nostri destini.” Binswanger commenta: “Questo sogno, che risale a circa un anno prima dell’inizio del viaggio in Italia e della sua stesura, il fatto che rimanga a lungo nella memoria di Goethe e che questi lo citi di continuo, sono elementi che consentono allo psicologo di vedere distintamente la labilità e la precarietà dell’esistenza di Goethe, in quel periodo, rispetto alla quale egli, con istinto sicuro, riuscì a riprendersi con la fuga in Italia, verso il sud, o il sole, i colori, verso nuovi valori dello spirito e dell’amore.”
Ecco, passare dai colori notturni a quelli della luce meridiana del giorno, significava passare da uno stato emotivo di labilità e precarietà esistenziale ad altro ricco di nuovi valori dello spirito e dell’amore. Le fantasie del sogno non rappresentano altro che lo specchio di “insieme della nostra esistenza e dei nostri destini” come dice Goethe. Questa analisi esistenziale dei sogni, interpretati come rappresentativi dell’esistenza di chi sogna, di cui Binswanger coglie lo spunto nelle parole di Goethe, costituisce il fondamento della tesi portata avanti dallo psicologo svizzero, che si rifà alla filosofia esistenziale di Heidegger, in riferimento alla fenomenologia di Husserl. Questo tema, apparentemente così complesso, per chi non è addentro a tematiche di filosofia e psicologia, appariva abbastanza chiaro al dottor Winter, che ne aveva approfondito lo studio, non solo per i suoi fini professionali, ma anche per una sua propria personale erudizione. Egli, infatti, trovava diletto anche nella lettura di semplici romanzi, in cui tali temi venivano immaginosamente trattati, alla stregua di una certa analogia tra le visioni dei sogni e le fantasie dei poeti, come esplicitamente afferma lo scrittore argentino Jorge Louis Borges. In una delle trenta conversazioni da lui tenute con il giornalista Osvaldo Ferrari alla Radio municipale di Buenos Aires, nel 1984, in seguito pubblicate nel giornale “Tiempo argentino”, in quella sul sogno, rispondendo a una domanda dell’intervistatore – “Lei, negli ultimi tempi, ha identificato l’atto di scrivere con quello di sognare” – Borges specifica: “Sì, e anche l’atto di vivere con quello di sognare.” Ed ecco l’equazione tra sognare scrivere vivere: immagini dei sogni, fantasie poetiche, realtà della vita, formano un tutt’uno dell’esistenza, quel modo d’essere dell’uomo nel mondo, un Esserci (Dasein), che si caratterizza per la sua capacità di progettarsi ed esistere. Per Heidegger, le strutture fondamentali dell'Esserci, come esse si presentano nella vita quotidiana, sono: gettatezza, decisione, progettualità. In verità, alla base delle sue convinzioni, il dottor Winter aveva un altro fondamento filosofico, che contrastava con la struttura dell’Esserci heideggeriano: trovarsi gettato nel mondo senza aver scelto le proprie condizioni. Come egli sapeva, ogni uomo sceglie il proprio paradigma di vita, quando si trova nel prato delle anime prima di incarnarsi, anche se poi in vita dimentica di essere stato lui a scegliersi, avendo oltrepassato il fiume dell’oblio. Da questa scelta, anche se limitata ai paradigmi di vita di uomini e animali, che l’araldo aveva raccolto dalle ginocchia di Lachesi e disteso sul prato, in numero pur sempre maggiore delle anime presenti, in verità, deriva la struttura heideggeriana dell’Esserci della “decisione”, descritta come la capacità di assumere decisioni e scelte in un progetto di vita. E sempre da quella scelta iniziale deriva quell’ulteriore struttura dell’Esserci, indicata come “progettualità”, ossia la dimensione di un futuro in cui l'Esserci progetta la propria esistenza. E dovendola progettare secondo un modello possibile, questo rientra nell’insieme dei modelli di vita giacenti nel grembo della Moira, Lachesi. Sull’incarnazione di un’anima nella vita animale, Winter aveva una sua particolare convinzione, che non contraddiceva comunque il mito platonico del “Fedro” combinato con quello della “Repubblica”. Bussarono alla porta dello studio e Claudia, la segretaria, annunciò la visita di “O’ pazziariello”, così come avevano soprannominato quell’anziano paziente, che subito dopo entrò, avanzando a passettini di danza, l’aria ilare. Winter sbuffò – ma non aveva scelto lui quella vita? – la segretaria abbozzò un sorriso di circostanza e si ritirò.
EREIGNIS Indipendentemente dal fatto se la scelta di sé stesso fosse stata fatta platonicamente dall’anima di Winter prima d’incarnarsi o, alla maniera di Heidegger, dopo essere stato gettato nel mondo, non si sa bene da chi, il destino (Geschick)?, un dono dell’Essere che si fa evento?, sta di fatto che adesso l’evento (Ereignis) consisteva nell’assistere allo show di “o’ pazzariello”, e il dottore rimase pazientemente in attesa. Questa volta la recita non durò molto: il maresciallo in pensione, Zennaro Esposito, entrato mimando passi di danza, gridò: “Dottore, mia figlia si sposa! Ho portato i confetti.” E così dicendo, gli porse la bomboniera. Winter la prese e disse: “Sono felice.” E Zennaro lo abbracciò e baciò due volte sulle guance. “Dottore, questa volta non vi faccio perdere tempo, là fuori una signora vi aspetta” e strizzò l’occhio sinistro, voltandosi verso la porta. “Zennaro, grazie” si limitò a rispondere Winter, mentre lo accompagnava all’uscita. Un anno prima, l’uomo si era presentato con una depressione profonda, la moglie malata e molto sofferente aveva scelto di andarsene nell’altro mondo, ed ora il vedovo sembrava avere elaborato il lutto. Era passato dallo stato disforico ad una fase di minore sconforto, fino ad un recente eccesso di euforia. Un po' come i bambini piccoli, che passano facilmente dal pianto al riso, pensò Winter. Poco dopo, entrò la paziente in attesa, Armonia Levolle, signora quarantenne, di padre italiano e madre fiamminga. Il marito l’aveva abbandonata, lasciandola con un bambino piccolo e in uno stato di grave prostrazione. Nel corso delle sedute, una volta Winter le aveva letto alcuni brani di un romanzo, ma lei era rimasta insensibile, sembrava più un rapporto accademico tra professore e allievo, che tra medico e malato. Prima di andarsene, però, la donna aveva chiesto se poteva prendere il libro, e Winter, sebbene sorpreso, aveva subito acconsentito.
Ora, Armonia Levolle era venuta a consegnare il libro: “Nell’azzurro profondo”. Si trattava di un volumetto di quattro capitoli, lei indicò il passo del quarto, che il dottore le aveva letto la prima volta. Questa volta in silenzio, Winter si era messo a leggerlo: “Scendendo verso sud il paesaggio sembra mutare, ad un tratto il treno rallenta. Passano alcune case, sul pendio si raccoglie l'abitato di un paese e sullo sfondo si può osservare la distesa azzurra del mare. La viaggiatrice contempla incantata la trasparenza azzurrina dell'aria sfumata nella limpidità del cielo, avvolgente lo specchio lucente dell'azzurro del mare. Rivede Ponte, l'estate dell'anno prima, i colori perduti, la luce mediterranea e viene colta da un sentimento d'intensa nostalgia.” Smise di leggere, si era accesa la spia luminosa dell’interfono. Winter pigiò sul tasto dell’apparecchio, la lucina divenne verde, si udì la voce della segretaria: “È arrivato il signor Torriconi.” Winter guardò l’orologio, era arrivato con mezz’ora d’anticipo, un paziente complicato. “Fallo accomodare e digli di aspettare” disse. Si udì la voce di Claudia: “Va bene, ci penso io.” Il dottore spense l’interfono, con aria perplessa. Armonia Levolle fece l’atto di alzarsi, l’espressione interrogativa, ma Winter la fermò con un gesto della mano, e ostentò un segno di noncuranza, increspando leggermente il labbro inferiore. Quindi, andò a ricercare il punto della pagina del libro, in cui si era interrotto, saltò alcune righe, e riprese a leggere, questa volta, a voce alta: “Il treno si ferma e lei continua a contemplare l'incanto di luce azzurrina del mare ed i tenui colori sfumati nell'azzurro dell'aria e del cielo di quel tiepidissimo dicembre. Abbandonate le brume e la nebbia, il freddo e la notte, quando il cavaliere del Nord era giunto per la prima volta su queste sponde del Mediterraneo, doveva avere trattenuto il respiro di fronte allo spettacolo, che si presentava al suo sguardo, superiore ad ogni sua possibilità di meraviglia. Quando il treno riparte ed il paesaggio muta, scomparendo il mare e tornando la campagna e le colline, svanisce il ricordo e viene smarrito l'incanto.” Winter, che era l’autore del libro, pubblicato sotto altro nome, sapeva di avere ripreso l’immagine di stupore e di meraviglia da Scott Fitzgerald, l’autore del “Grande Gatsby”. Ed ora, nel vedere il volto della sua paziente illuminato dalla stessa espressione di meraviglia, capiva che lei aveva iniziato l’ultimo percorso della sua guarigione. In quel momento, il silenzio fu interrotto dal secco rumore di uno sparo, proveniente dalla saletta di attesa. Winter si alzò di scatto e si precipitò fuori: sulla soglia del bagno attiguo, di spalle, Claudia aveva lanciato un grido. Il dottore la scostò e guardò all’interno: il corpo di Torriconi giaceva a terra senza vita, una pozza di sangue attorno alla testa, il braccio ripiegato, la pistola scivolata di mano. L’Essere si era fatto evento (Ereignis).
UNA FOLATA DI VENTO L’altro giorno ero seduto in terrazzino e stavo leggendo il racconto “Il musicista di Dublino”, quando sono stato investito da una folata di vento gelido – l’improvviso calo delle temperature, dovuto a una massa d’aria fredda proveniente dall’Est e dalla Russia siberiana. Allora, sono rientrato in casa, e sono andato a sedermi davanti al computer, per elaborare e scrivere il saggio sull’ontologia di Heidegger, derivata dalla fenomenologia di Husserl. Poco dopo ho sentito un bip, e sull’iPhone ho ricevuto un’immagine dall’America, le cascate del Niagara. Era un selfie di Winter, ritratto con la moglie Eleonora, la segretaria Claudia, e i loro due bambini, tutti sorridenti e felici, nei loro mantelli trasparenti antipioggia. Tra qualche giorno, ritorneranno da questa breve vacanza in America. Ho guardato meglio la figura di Eleonora, leggermente di profilo, mi sembrava come se avesse una certa dilatazione dell’addome, forse il vento delle cascate le gonfiava il vestito. O forse, ah! Evviva!
LA CONSECUTIO TEMPORUM La mattina dopo, Winter con Claudia e la moglie finirono di ripulire e disinfettare il bagno, poi chiusero i locali e se ne andarono tutti e tre insieme. Lo studio riaprì soltanto una settimana dopo. Era ormai l’autunno, ma dopo giorni di freddo, erano ritornati il bel tempo e il sole dell’ottobre romano. Nel primo pomeriggio, quando il dottore si recò nello studio, mentre arrivava, vide una figura scura dall’altra parte del marciapiede venire in direzione contraria, e avvertì come una strana sensazione del passaggio di un’ombra, che lo investì e subito disparve. Entrando nello studio, vide Claudia seduta al banco della ricezione, che gli mostrava una busta: “È venuta Angela Riva,” disse. “Ha pagato l’intera parcella della cura,” aggiunse. “Bene,” disse Winter “abbiamo altri impegni, oggi?” Claudia gli porse la busta: “Ha lasciato un messaggio riservato a lei, dottore.” Sulla busta era scritto: “Al dottor Winter”. Non era chiusa, e mentre estraeva il foglio, Winter domandò a Claudia: “L’hai letto?” La segretaria non rispose. Sul foglio c’era scritto: “Al dottor Winter. Avrei voluto qualcuno che si fosse ricordato di me. Angela Riva.” Winter sollevò lo sguardo su Claudia. “Vuole telefonarle?” disse lei. Il dottore non rispose: “Avrei voluto qualcuno.” Ecco, lei non aveva nessuno. “No, più tardi chiamala, e chiedile se vuole continuare la cura oppure no.” Poi entrò nel suo studio, si andò a sedere dietro alla scrivania, accese il computer, e si mise a leggere la posta elettronica. Tra le tante e-mail, andò ad aprire quella con il mittente: “Elsa Tedeschi”. Era datata diversi giorni prima: “Caro dottor Winter, le scrivo da Torino, qui è autunno, e dalla città si vedono le montagne alpine imbiancate di neve. Le scrivo per definire il racconto del mio sogno sui cani. Nel parco di “Giulia Servilia” non c’è il canile e neppure la caserma della polizia veterinaria. Quelle immagini si riferivano a delle cronache, di cui avevo letto sui giornali, e visto i servizi in televisione, di un assalto degli animalisti, che avevano liberato tutti i cani rinchiusi nel canile di Roma Sud. Ho elaborato le mie fantasie, come mi aveva raccomandato di fare, recuperandole nella mia realtà esistenziale. Resterò a Torino ancora a lungo. Quando tornerò a Roma, passerò a trovarla. La sua amica Elsa Tedeschi.”
“È segno di salute psichica il fatto che colui che sogna riesca a oggettivare in buona parte i propri desideri e timori in immagini drammatiche, dalle quali il contenuto emotivo sembra derivare solo in via secondaria.” Così dice Binswanger. E questo giudizio dello psichiatra svizzero suonava come una conferma, per la lettura del sogno di Elsa Tedeschi e della sua vicenda esistenziale, anche alla luce di quanto le aveva comunicato con la sua e-mail. Infatti, il contenuto emotivo non prevaleva sull’azione drammatica, separandola dalla sua stessa forma corporea, per usare le parole di Binswanger, risolvendosi al di fuori di essa. In verità, ripensandoci, al dottor Winter venne un dubbio, si disse, abbastanza accademico, ma volle verificare, e andò a rileggersi la descrizione del sogno della Tedeschi, soprattutto nella parte finale. “Un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.” Un primo giudizio da lui dato sul “fluttuare in aria”, a cui era seguito il risveglio, era stato più che altro un riscontro alla teoria del sogno di Binswanger. Guardò il testo scritto: al “fluttuare in aria” seguiva “nel buio”, contiguo al risveglio. E poi lei, forse, si era addormentata. Era come se a quel sogno mancasse qualcosa. Quel risveglio era stato improvviso, una forma di angoscia, che però non era stata raccontata. Noi possiamo dire che il racconto del sogno, fatto dalla Tedeschi, era rimasto incompleto: “Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.” Non era questo un sogno di morte?
Commentando il sogno di un suo paziente, Binswanger scrive: “Il paziente stesso definisce questo sogno un sogno di morte. Questo librarsi senza forma, questa completa dissoluzione della forma corporea è un elemento negativo dal punto di vista diagnostico.” Winter rimase pensieroso, poi non si sa come e perché gli vennero in mente gli antichi Mani, divinità romane che rappresentavano le anime dei defunti, forse il riferimento gli era stato suggerito dalla storia di Giulia Servilia. Quale storia? Winter si sentiva un po' confuso, stava per chiudere il file, relativo ad Elsa Tedeschi, quando aprì la seconda e-mail inviatale dalla donna. Il messaggio non era lungo: “Caro dottor Winter, qui a Torino sono stata raggiunta dal mio conoscente ed amico, il maestro D’Anchise, il musicista di Dublino. In breve, il maestro ha musicato un testo poetico del professore Romano Antiochia, relativo a una donna evocata nei suoi versi. Ed io mi trovo qui per questo, non so se lei, dottore, sia stato a conoscenza del caso di cronaca, la morte sospetta di Antiochia, Legato del Ministro degli Esteri, avvenuta in Abruzzo, a San Silvano sul mare. Ma questo non credo che interessi il mio sogno. Con amicizia, Elsa Tedeschi.” Che cosa significava: “Ed io mi trovo qui per questo”? Winter non sapeva di Antiochia né tanto meno di D’Anchise, di entrambi i quali in quel momento aveva per la prima volta contezza. Era confuso, non capiva, quella donna era andata a Torino, sulle tracce di un fantasma, evocato da un altro fantasma, ed aveva trovato un uomo in carne ed ossa, il maestro D’Anchise, il musicista di Dublino. Ecco, era l’inizio di una nuova storia, quindi chiuse ed archiviò il file relativo ad Elsa Tedeschi. Riprese e rilesse il messaggio di Angela Riva: “Avrei voluto qualcuno che si fosse ricordato di me.” Il messaggio era chiaro, era indirizzato a lui, Winter. Era lui quel “qualcuno”, da cui Angela Riva si congedava. La regola grammaticale della consecutio temporum era stata rispettata: la frase principale, con il condizionale imperfetto del verbo, concordava con il congiuntivo passato della frase relativa, ed esprimeva l'amarezza di un desiderio disatteso, scivolato via nel fluire del tempo. Uscendo dallo studio, Winter chiese alla segretaria se avesse telefonato ad Angela Riva. Non era raggiungibile, disse Claudia. “Domenica, sei a pranzo da noi?” domandò Winter. “No,” disse lei, “sono ritornata a stare con Giorgio.” La trasferta americana aveva funzionato, il giovane si era ingelosito. “Chiudi tu?” disse Winter. “Sì,” rispose Claudia. Il dottore uscì e si avviò in direzione di casa. Dove andiamo? Sempre a casa.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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IL MUSICISTA DI DUBLINO
1.
Erano entrambi seduti su un divano d’angolo del salone del “Londoner Hotel” di San Silvano sul mare e parlavano tra loro: l’uomo con l’impermeabile bianco, un cinquantenne magro ed asciutto, estrasse dalla tasca sinistra il telefonino e si mise in comunicazione con il maggiore Elsa Tedeschi; l’altro, un uomo apparentemente della stessa età, ma in realtà di qualche anno in più anziano, allungò una mano sul tavolino di vetro davanti a loro e diede un leggero tocco con i polpastrelli alla ceramica del samovar, per saggiarne il grado di calore, ritirandoli però subito lievemente scottato.
“Ci raggiunge qui?” interrogò l’uomo con l’impermeabile bianco, scostando il telefonino dall’orecchio e rivolgendo la domanda al suo vicino. Questi assentì con la testa e si affrettò a dire sì.
“Va bene, Tedeschi, venga: l’aspettiamo” concluse l’altro al telefono; poi chiuse la comunicazione. “Sarà subito qui,” disse ancora, riponendo il cellulare in tasca “abita poco distante.”
Un cameriere portò un vassoio con la zuccheriera, due tazze con piattini per il tè, un piattino con fette di limone e posò il tutto sul tavolino.
“Ancora una tazza” disse l’uomo con l’impermeabile bianco, mentre il cameriere serviva. Era un colonnello dell’Esercito, in servizio presso il Ministero degli Esteri; il suo compagno aveva l’incarico di capo del dipartimento affari militari per le missioni all’estero, nominato direttamente dal ministro, di cui era amico di vecchia data. Alcuni giorni prima, un elicottero dell’aviazione leggera dell’esercito era caduto in prossimità dell’abitato di San Silvano ed il pilota, il giovane capitano Silvestrini, era morto. Era stata nominata una commissione d’inchiesta, guidata dal Legato del Ministro, il capo dipartimento, Romano Antiochia, che ora conversava con il colonnello Alberti, lì nel salone del lussuoso albergo di San Silvano adriatico.
“Credo che possiamo cominciare già domani mattina, con un sopralluogo all’aeroporto di Rosanova di Teramo, presso l’unità elicotteri” disse il legato del ministro. “Senza dubbio” confermò l’ufficiale.
In fondo al salone era apparsa una donna alta, la figura slanciata, indossante un impermeabile bianco, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane; si diresse immediatamente verso di loro. Quando la videro avvicinarsi, entrambi gli uomini si alzarono galantemente e si presentarono; quindi, tutti e tre si sedettero. Si era avvicinato anche il cameriere con la terza tazza del tè e si era fermato in piedi, attendendo. “Prego!” esortò il colonnello Alberti, rivolgendo l’invito al cameriere ed indicando la donna. Questa però si schermì, dicendo che non prendeva nulla, data l’ora quasi di cena; comunque, entrambi indicarono al servente di posare la tazza sul tavolino. Il legato del ministro intanto saggiò di nuovo con gesto prudente la ceramica del samovar, questa volta con le falangi, rimanendo per alcuni istanti a cogliere la sensazione del calore, che ora sembrava averlo soddisfatto. Infatti, prese la teiera per il manico ed incurante del gesto di diniego, appena abbozzato dall’ufficiale donna, le versò il tè fumante nella tazza, poi lo servì al colonnello Alberti e infine riempì con cura la sua tazza; ripose quindi il samovar, prese il piattino con le fettine di limone e l’offrì prima alla donna, che non prese nulla, poi al suo vicino, che gradì, prese il limone e ringraziò ed infine lo avvicinò a sé e si servì.
Il militare apprezzò molto il linguaggio diplomatico del ministro legato e sorrise compiaciuto, forse pensando inconsciamente a qualche sua promozione ad ufficiale generale. Quindi si alzò e si congedò per l’indomani, riferendo di essere stato invitato a cena da alcuni suoi colleghi ed estendendo l’invito al ministro. Questi si scusò, adducendo di essere indisposto e di avere ordinato la bevanda calda proprio per lenire il mal di testa, si alzò di nuovo, strinse la mano all’ufficiale e lo salutò cordialmente. Anche il maggiore Elsa Tedeschi, la donna ultima sopraggiunta, si alzò e si congedò, con l’intesa di ritrovarsi lì tutti e tre l’indomani mattina alle otto.
Rimasto solo, Antiochia si versò altro tè, ma non sentì il bisogno di zuccherarlo troppo, pensando di avere già la bocca dolce e forse anche un po’ preoccupato di tenere sotto controllo il colesterolo. Sotto il profilo del mal di testa, la bevanda gli parve benefica, sentendosi già cogliere da un sorprendente torpore. Pensò comunque che fosse troppo presto per ritirarsi in camera ed allora si avvicinò al televisore, collocato in un altro angolo della sala, si sedette su una poltrona e cercò di seguire il programma di quiz, che stavano trasmettendo. Il simpatico presentatore aveva letto la domanda: “Chi tra questi scrittori non ha intitolato un suo romanzo “Una vita”: Italo Svevo, Pierpaolo Pasolini, Guy de Maupassant, Ettore Schmitz”?
La donna che doveva rispondere, una signora di età matura, magra e bionda, appariva indecisa, poi cominciò a parlare: “Escluderei Pasolini, che mi sembra non abbia scritto “Una vita”; se non erro, un suo libro è intitolato “Una vita violenta” …” Il presentatore aveva messo le braccia conserte e ascoltava con aria sorpresa la concorrente, che continuava a pensare a voce alta: “Però sia Maupassant che Svevo hanno intitolato un loro romanzo “Una vita”: di questo sono sicura, perché quando riferirono a Svevo che il titolo “Una vita” era già stato usato per un romanzo dallo scrittore francese, lui s’intestardì a volere intitolare egualmente il suo libro: “Una vita”, forse pensando che il suo testo avrebbe avuto maggior fortuna, oscurando la fama dell’altro.” La donna si fermò e sorrise di questa sua osservazione, poi cominciò a meditare in silenzio, apparendo fortemente perplessa: “Le risposte esatte sono due, anzi tre, direi, perché Schmitz…”
Il presentatore intervenne, avendo intuito l’equivoco in cui la donna era caduta nella lettura del quiz: “Ma qual è la domanda?”
La donna guardò il pannello. La telecamera inquadrò di nuovo il presentatore: “Attenzione: chi non ha scritto, non ha scritto “Una vita” è la domanda.” Aveva sottolineato il “non”.
“Ah!” esclamò la concorrente. Poi commentò: “Schmitz, mi sembra è il nome… quindi Pasolini. Si, Ettore Schmitz è il vero nome di Italo Svevo, quindi…”
“Quindi la risposta è...?”
Il legato del ministro aveva sonno, chiuse gli occhi e vide il volto di una ragazza dai capelli rossi, con leggere efelidi sul viso, la pelle bianca, il rilucente sguardo degli occhi scuri. Claudia! Rivide il profilo sinuoso della donna con l’impermeabile bianco che stava prima con loro, allontanarsi nel salone. “Le immagini si fondono / e si smarrisce il profilo del tuo volto / dissolto nella luce della notte. /…Claudia.” Un viale d’autunno con le foglie d’oro, il ponte antichissimo sul fiume verde ed oltre la riva, la cupola della chiesa: poi giunsero altre immagini confuse. Il legato del ministro si svegliò e guardò lo schermo televisivo: stavano trasmettendo una partita di calcio. Guardò l’orologio: erano le dieci passate.
Si alzò assonnato, andò al bancone della reception e chiese di essere svegliato per le sette, prese l’ascensore e salì al quarto piano, sentendosi come uno strano sonnambulo. Avvertiva un certo sapore amaro nel palato, forse perché impastato dal sonno e molta spossatezza. In camera bevve due bicchieri d’acqua minerale, ma il senso di fiele non andò via con la sete. Sulla scrivania, annotò su un foglio bianco la scritta: “Claudia, addio!” Si spogliò, indossò in fretta il pigiama e si coricò in uno stato quasi di veglia. Lontano nel tempo, Claudia percorreva il porticato della strada nella luce della sera: una immagine longilinea, l’impermeabile bianco. Ora gli parve vicinissima, riconosceva il suo volto, che aveva le fattezze di quello del maggiore Elsa Tedeschi: le efelidi, la pelle rosea, i capelli rosso amaranto; poi la figura svanì nel buio delle ombre della sera.
2.
Il maggiore dell’aviazione leggera dell’esercito, Elsa Tedeschi, si presentò puntuale alle otto del mattino del giorno dopo nella hall dell’albergo per rilevare il colonnello Alberti, che infatti comparve qualche minuto dopo. Salutò sorridente e di ottimo umore la collega ed entrambi cominciarono a scambiarsi qualche chiacchiera in attesa del legato del ministro. Alberti era fresco e vivace: si era svegliato presto ed era sceso in tuta ginnica, per andare a compiere la sua quotidiana seduta di jogging mattutino, una decina di chilometri, sul lungomare adriatico invernale. Incontrò qualche sparuto compagno di corsa e qualche altro mattiniero che portava in giro il cane. L’alba era fredda, il mare abbastanza tranquillo, la spiaggia deserta. Rientrò in albergo e dopo la doccia, si recò nel salone per la prima colazione, che consumò abbondante; c’era qualche altro avventore e la televisione accesa che trasmetteva le notizie del telegiornale in sintesi. Alberti si trattenne a leggere le notizie del giornale, sperando di vedere scendere il ministro, ma inutilmente; infine risalì in camera, per essere definitivamente pronto per le otto.
Elsa Tedeschi in divisa color blu avio era forse più appariscente che in abiti civili, data la sua snella figura e la caratteristica foggia dell’uniforme, che prevedeva la camicia e cravatta e la bustina come berretto. Era in piedi nella hall e conversava con Alberti, che indossava lo stesso soprabito bianco della sera precedente. Dopo un po’, prolungandosi l’attesa, decisero di andare a prendere un caffé alla pasticceria “Dominioni” lì vicino. Tornarono dopo una decina di minuti, ma il ministro non era ancora sceso, fuori l’aviere attendeva paziente al posto di guida dell’automezzo militare. Alberti allora si decise e andò ad interrogare l’impiegato della reception; questi gli riferì della sveglia alle sette, chiesta dal ministro e dichiarò di non averlo visto né entrare nella sala della prima colazione né uscire dall’hotel.
“Si sarà attardato” commentò Alberti. Rifletté un istante e poi chiese all’impiegato se potesse telefonargli in camera. L’altro ubbidì prontamente: il telefono squillava a vuoto.
“Il signore non risponde” disse professionalmente l’impiegato, chiudendo la comunicazione.
Alberti si rivolse al maggiore Elsa Tedeschi, che intanto si era avvicinata: “Io direi di far venire un’altra automobile intanto.”
“Non aspettiamo?” interrogò la donna ufficiale.
“Sì, nell’attesa.”
Il maggiore prese il suo telefonino dalla borsa e telefonò al comando, per richiedere l’autovettura. Chiuse la comunicazione e ripose il telefonino; poi informò il colonnello che presto sarebbe giunta un’altra automobile. Dopo una ventina di minuti, in cui i due ufficiali si erano aggirati insieme un po’ per la hall ed un po’ fuori dell’hotel, giunse la seconda autovettura: era un’automobile blu, con autista in abiti civili. Alberti guardò l’orologio: erano quasi le nove. Fece un nuovo tentativo con l’impiegato per chiamare il ministro in camera con il telefono, ma Antiochia non rispondeva: verosimilmente dormiva della grossa.
“Decisamente deve essersi riaddormentato, forse aveva bisogno di riposare” commentò a voce alta il colonnello; l’impiegato abbozzò un sorriso di approvazione. Risoluto, allora, l’ufficiale si allontanò dal bancone della reception, attraversò la hall e raggiunse all’esterno la Tedeschi, che aspettava davanti all’automezzo militare, mostrando nell’atteggiamento l’aspirazione, si potrebbe dire, a venir via dal luogo.
“Deve avere ripreso sonno dopo la sveglia e si è riaddormentato, il ministro: sicuramente dorme come un ghiro. Direi di andare e di attenderlo negli uffici dell’aeroporto: possiamo così cominciare a guardare gli atti riguardanti la disgrazia di Silvestrini.”
Il maggiore aveva ascoltato attentamente, sembrava approvare, quindi disse con semplicità: “E non avvertiamo?”
“Ah, certo!” Il colonnello chiamò l’aviere e l’incaricò di riferire il messaggio alla reception del loro recarsi in aeroporto e dell’attesa dell’altra automobile di servizio, a disposizione del ministro. Quindi invitò il maggiore a sedere davanti, a fianco al posto di guida, mentre lui montava dietro. Poco dopo, quando l’aviere tornò, finalmente partirono.
Dopo mezzogiorno, si presentò al “Londoner Hotel” il capitano Barra; il giovane ufficiale era stato lì inviato da Alberti, su richiesta della direzione dell’albergo, che aveva espresso l’esigenza di fornire una riservata e urgente comunicazione agli organi militari in contatto con il ministro.
In breve, il direttore dell’albergo informò il capitano Barra che la donna di servizio al piano, nell’entrare per errore nella stanza del ministro con la chiave passepartout, aveva notato una strana immobilità del dormiente nel letto nella stanza in ombra, per cui aveva precipitosamente informato la direzione, che aveva provveduto ad avvertire subito gli organi militari.
“Forse può trattarsi di un malore?” interrogò il capitano.
“Sa, verso le undici, ha telefonato la moglie del ministro, dalla Spagna. Ha detto al nostro impiegato che il marito non rispondeva al telefonino portatile e che negli uffici dell’aeroporto di San Silvano, dove avrebbe dovuto trovarsi, avevano risposto che il marito era in albergo, forse ancora addormentato nella sua camera..”
“E allora?”
“Bah! Dal centralino hanno passato l’interno della stanza, ma il ministro non rispondeva. La signora allora ha lasciato un messaggio per il marito: era in partenza per Montevideo.”
“Montevideo?”
“Sì, la signora ha detto così.”
“Allora lei ha mandato a vedere?”
“Capitano, quando l’impiegato mi ha rintracciato e si è sentito in dovere di avvertirmi dell’episodio, ho pensato che forse era opportuno… lei capisce?”
“Certo! Quindi che pensa di fare?”
“Io non so; era mio dovere avvertirvi.”
“Certo, certo!”
“Quindi, capitano, lei che fa?”
“Avverto il colonnello” rispose prontamente il giovane ufficiale. Si mosse di un passo e fece la sua comunicazione al suo superiore. Poco dopo, chiuse con un “signorsì”; quindi, si rivolse al direttore dell’albergo e gli comunicò che dovevano andare a controllare in camera.
Poco dopo salirono al piano, dove la donna di servizio sembrava già attenderli, con la chiave pronta. Entrarono cautamente nella stanza in penombra dietro di lei, che sembrava muoversi con più disinvoltura. Il ministro giaceva immobile sul letto, la donna scostò leggermente una tendina e si accostò al letto, dove si erano fermati il capitano e il direttore dell’albergo; questi ultimi, non appena nella stanza si era fatta un po’ di luce, si erano istintivamente ritratti, quasi temendo che il dormiente risvegliandosi li sorprendesse irregolarmente nell’intimità della sua stanza.
Il dormiente invece non si risvegliò, rimase immobile nel suo letto: come presto si resero conto tutti insieme i tre presenti nella stanza, il professor Romano Antiochia, Legato del Ministro degli Affari Esteri, giaceva morto nel suo letto.
3.
Elsa Tedeschi giunse alle undici precise all’aeroporto di Fiumicino, lato arrivi, alla guida della sua automobile privata, un’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato. Trovò un parcheggio provvisorio alla lettera “C” e dopo avere dato un’occhiata sbrigativa alla strada, dove non scorse nelle vicinanze nessun vigile urbano, si avviò all’interno della sala dell’aerostazione. All’interno fissò subito l’attenzione sui monitor che indicavano i voli in arrivo e con soddisfazione notò che quello da Dublino era in fase di atterraggio: non le restava che attendere qualche minuto, intervallo di tempo durante il quale non avrebbe avuto necessità di dover spostare l’autovettura, per evitare una qualche contravvenzione. Subito dopo sul monitor fu segnalato che l’aereo da Dublino era definitivamente atterrato ed Elsa Tedeschi si spostò verso la porta interna da cui uscivano i passeggeri in arrivo. Non dovette aspettare a lungo, perché presto riconobbe il maestro D’Anchise, inconfondibile per quella massa di lunghi capelli bianchi, secondo un’immaginaria iconografia di scienziato artista, propria di certe reali figure del passato.
Elsa Tedeschi alzò in alto il braccio agitando la mano ed il maestro D’Anchise presto si avvide del gesto, dirigendosi sorridente verso la donna. Quando le fu vicino e si furono cordialmente salutati, lei tentò inutilmente di togliergli di mano la valigia, che l’anziano musicista ultrasettantenne abilmente difese, inducendola a desistere; la donna allora gli fece strada verso l’uscita, gli domandò del viaggio e se avesse avuto qualche disagio, mostrando di ascoltare con interesse le risposte di circostanza di lui. In breve, furono accanto all’automobile e questa volta Elsa Tedeschi ebbe buon gioco a farsi consegnare la valigia dall’anziano uomo, per riporla senza eccessiva difficoltà nel bagagliaio posteriore.
Era passata una settimana circa dalla morte di Antiochia, una notizia che aveva destato scalpore, quando era trapelata la voce che la causa del decesso poteva attribuirsi ad una forma di avvelenamento e le indagini si erano subito orientate verso il suicidio, per il ritrovamento nella camera d’albergo di quel biglietto d’addio ad una donna di nome Claudia.
Ed invero, due giorni solo dopo il fatto, un alto ufficiale dell’aviazione della Marina Militare, l’ammiraglio di squadra aerea Cerasuolo, incaricato dal Ministro degli Esteri dell’inchiesta sulla morte del suo Legato, si era recato presso l’aeroporto di Rosanova, dove aveva compiuto una ispezione della base; quindi, aveva convocato una riunione finale, a cui furono presenti tra gli altri ufficiali, anche il colonnello Alberti ed il maggiore Elsa Tedeschi. Cerasuolo era seduto alla scrivania e tutti gli altri ascoltavano rispettosamente in piedi. L’ammiraglio, abbastanza corpulento, aveva appoggiato un gomito sul bracciolo della sedia, reggendosi pensoso il mento con la mano ripiegata. Picchiettò con le dita dell’altra mano sul ripiano della scrivania, alzò lo sguardo sui presenti e pose l’interrogativo al suo uditorio: “Claudia, chi è Claudia?” Nessuno rispose ma più d’uno accennò a spostare la testa in direzione del maggiore ElsaTedeschi, l’unica donna presente alla riunione.
Cerasuolo la guardò e gli sembrò di cogliere sulle labbra di lei come un impercettibile sorriso, da lui decifrato come di sorpresa; allora scattò sorprendentemente in piedi e pronunciò la sua sentenza: “Suicidio, dunque! Il caso per ora è chiuso, aspettiamo eventuali novità dall’Intelligence.” Quindi si rivolse ai due capitani che avevano istruito il dossier sulla morte di Silvestrini nell’incidente dell’elicottero e li mise a disposizione del colonnello Alberti e del maggiore Tedeschi, per le risultanze della loro inchiesta. Infine, diede ordine a tutti d’informarlo di ogni emergenza al Ministero, dichiarò sciolta la seduta e si allontanò, seguito da tutti gli ufficiali, che lo accompagnarono in cortile fino alla sua autovettura, pronta con alcuni motociclisti di scorta. Prima di andarsene, l’ammiraglio guardò in alto, dove sulle loro teste volteggiava un elicottero, sembrò voler dire qualcosa, ma tacque; poi salì in macchina e partì con il suo seguito di motociclisti.
Più che alle risultanze dell’inchiesta dei due capitani sulla morte del loro collega Silvestrini, il maggiore Tedeschi era interessata alla sorte di Antiochia, meglio ancora del personaggio di una donna senza volto saltato fuori alla sua morte, di cui si aveva come brandello d’indizio soltanto il nome: Claudia. Il suo istinto femminile la spingeva a investigare in quella direzione, indubbiamente mossa da un suo interesse per il defunto Legato del Ministro, di cui senza però essere da lui notata aveva frequentato la segreteria ed appreso qualche voce di corridoio che circolava sul suo conto. Negli ambienti romani, Antiochia era un personaggio con una vita prevalentemente pubblica, al seguito del Ministro degli Esteri, ma Elsa Tedeschi appariva molto interessata al suo privato, per quella tipica forma di curiosità femminile, che comunque non escludeva un proprio tornaconto, data la posizione del soggetto. Ed ora, dopo quella morte così repentina, si sentiva portata ad investigare sulla figura di questa fantomatica donna: Claudia.
Cerasuolo aveva liquidato la faccenda come un affare privato, ma saggiamente aveva lasciato aperta la porta all’Intelligence, di cui però non si sapeva bene chi facesse parte; si era potuto capire soltanto dalle parole dell’ammiraglio che il capo dell’Intelligence doveva presumibilmente essere lui stesso, almeno relativamente a loro ufficiali presenti alla riunione. Elsa Tedeschi sapeva dalle sue frequentazioni ministeriali che Antiochia era in contatto con un musicista di fama, il maestro Vittorio D’Anchise, autore di numerose opere liriche, e sapeva anche, grazie all’amicizia stretta con la segretaria Gabriella, che in quegli ultimi tempi il legato del ministro aveva chiesto al compositore di musicargli alcuni testi poetici. Ecco, doveva venire in possesso di quei testi poetici, che Gabriella Angelini non le aveva saputo o voluto procurare. E allora, già prima della morte del legato era entrata in contatto con D’Anchise, residente a Dublino, ostentando un suo particolare interesse per la musica. Forse il maestro non era del tutto insensibile al fascino femminile, che Elsa Tedeschi indubbiamente possedeva in gran dote, o quantomeno non era riuscito a sottrarsi alle sue lusinghe, ed ora, al rientro in Italia, si lasciava accompagnare docilmente nella sua casa sull’Appia Antica.
Quando nel pomeriggio, alla guida della sua autovettura, la donna si avviò di ritorno dalla casa di D’Anchise, percorrendo l’antica consolare, il sole cominciava a tramontare. Si rivide nel salotto in penombra seduta sul divano a leggere il testo che il maestro le aveva gentilmente teso, dopo averlo diligentemente cercato tra le sue carte: “Ecco, signorina, tenga!” Così si era espresso l’anziano compositore nei confronti della donna, che comunque non lasciò trapelare dai tratti del suo volto una sua silenziosa ilarità, suscitatale da quell’appellativo.
Elsa Tedeschi era sposata da oltre dieci anni, ma separata già da più di qualche anno ed in attesa di divorzio o annullamento del matrimonio, essendo ormai quasi acclarato giudizialmente che il marito era affetto da turbe psichiche. In verità, qualche collega del maggiore aveva in certe occasioni sostenuto scherzosamente che forse il marito era indubbiamente oligofrenico, ma che la moglie non doveva avere certo contribuito ad alleviare il male, in riferimento al carattere abbastanza spumeggiante della donna.
“Addio, istanti” era il titolo della canzone di Antiochia, che D’Anchise aveva musicato e che Elsa Tedeschi, intrufolatasi nell’abitazione, in cui l’anziano maestro viveva da solo, leggeva con sorprendente interesse: “Nella luce della notte si dissolve / anche quel tratto di penombra / sotto il portico tra piazza Statuto / e Porta Susa….” Torino! La pista di Claudia conduceva a Torino. Elsa Tedeschi aveva ripiegato il foglietto e lo aveva sveltamente riposto nella borsetta, sotto lo sguardo di D’Anchise.
L’alfa romeo 156 di colore grigio metallizzato percorreva intanto la via Appia antica costeggiando il parco di recente inaugurato dal comune ed intitolato a “Giulia Servilia”, un personaggio dell’antica Urbe, riscoperto dal nuovo vicesindaco di Roma. Nel corso dei suoi studi, il vice primo cittadino, insigne storico e accademico, aveva rintracciato in una fonte inedita di Cicerone il riferimento all’esistenza fino ad allora ignorata di una figlia di Tertullia, matrona romana della gens Julia, che a sua volta si vuole sia figlia naturale di Caio Giulio Cesare e di Servilia Caepionis, nonché sorellastra di Marco Giunio Bruto, il congiurato cesaricida. Come la madre, Giulia Servilia era una donna bellissima, bionda e con gli occhi azzurri, dalla pelle dorata, almeno così la descriveva un’altra fonte successiva a Cicerone, secondo gli studi del vicesindaco, il quale sapeva bene che l’oratore doveva essere già stato ucciso e decapitato, quando Giulia Servilia aveva raggiunto l’età dell’adolescenza.
Elsa Tedeschi però non era a conoscenza di tutti questi particolari di storia e cultura che arricchivano il parco, per lei come per la quasi totalità degli abitanti del posto, frequentato per lo più da madri con bambini, accompagnatori o accompagnatrici di cani, appassionati di jogging ed altri occasionali passanti. Quando parcheggiò in un piccolo viale laterale, da cui vi era uno degli accessi al parco “Giulia Servilia”, la donna appariva pensosa. Scese dall’autovettura, la chiuse a chiave e s’incamminò lungo uno dei sentieri principali, costeggiato da due verdi prati; più avanti il sentiero s’inerpicava lungo un boschetto, per spuntare su un’altura, da dove si godeva un’ottima vista su un’ampia parte della zona dell’Appia Antica. Quando vi giunse, Elsa Tedeschi si fermò, si voltò di lato e guardò su una collinetta di fronte non molto lontana, e notò il casale, che appariva come un convento o un’abbazia incompiuta, per le numerose entrate ad arco completamente vuote e deserte. La donna fissò a lungo la costruzione e la immaginò abitata da strani frati o associò questa immagine a qualche suo confuso ricordo di un altrove abbastanza simile alla sua attuale visione; quindi, spostò lo sguardo all’indietro, dove in lontananza, all’inizio del sentiero da lei percorso vide la figura di uno jogger in tuta scura. Si voltò in avanti per riprendere il cammino e vide davanti a sé, accanto ad un piccolo ponticello, un uomo assieme al suo cane, ebbe come una piccola esitazione, poi s’incamminò con passo disinvolto. A metà strada, il cane, un elegante pinscher dal manto rosso cervo, le venne incontro giocoso e le annusò piedi e gambe, girandole intorno, più volte richiamato dal padrone poco distante. Elsa Tedeschi continuò il suo cammino e giunse al ponticello, che attraversò con calma, affrontando poi un leggero pendio in salita; procedeva molto lentamente ed aveva affrontato un viale stretto e secondario del parco; il sole era tramontato da un pezzo e già iniziava il crepuscolo. D’un tratto alla donna parve di udire nel silenzio di quella sua solitudine come un passo ritmato che veniva ad approssimarsi, si voltò, ma nell’incerta luce del giorno declinante non vide nessuno. Sembrò esitare, poi riprese il suo lento cammino lungo lo stretto sentiero in leggera salita, imboccando il tracciato della curva; il rumore del passo ritmato acquistò una maggiore consistenza. Colta da un vago senso di smarrimento, la donna accelerò il passo, poi quando sentì che il rumore cadenzato era divenuto più distinto e prossimo, aumentò ancora l’andatura. Poco dopo si voltò, ma non vide nulla al di qua della curva, sebbene la battuta del passo sul terreno a intervalli regolari la incalzasse da vicino; allora, presa da un’istintiva, ma irrazionale paura, cominciò a correre ed arrivata in cima al sentiero, si voltò affannata: a stento gli sembrò di scorgere nell’ultima grigia luce del crepuscolo, la figura di un uomo che spuntato dalla curva avanzava di corsa. In preda ad un panico ingiustificato, si buttò in una macchia di lato e si raccolse tutta raggomitolata, mugolando sordamente. Lo jogger aveva notato lo scarto laterale di quell’ombra femminile, e quando giunse anche lui in vetta al sentiero rallentò e si fermò a dare un’occhiata di lato, dove gli parve d’intuire nell’ombra la figura raggomitolata della donna, che aveva iniziato a gemere più forte, sentendo il fiato dell’uomo prossimo a lei. Sconcertato, ma anche inquieto, proseguì sbucando in un prato, dove in fondo la cancellata d’ingresso al “Giardino delle fontane” era illuminata dalle luci al neon che erano state accese qualche istante prima. L’uomo avanzò sempre correndo con passo ridotto al centro della radura, poi tornò indietro ed invece di riprendere il declivio nella direzione da cui era giunto, si spostò in un altro viale laterale.
Nel buio della sera, Elsa Tedeschi si distolse da quella sua innaturale posizione e rientrò sul sentiero, con l’aria di una persona al risveglio. Sostò guardando il prato che si stendeva davanti a lei e su cui si disegnavano giuochi d’ombra e di luce provocati dall’illuminazione al neon del cancello e del muro di cinta del “Giardino delle fontane”, che occupava un ampio spazio di fondo nel parco “Giulia Servilia”. La donna avanzò nel silenzio con passo esitante, in alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna; poi Elsa Tedeschi proseguì con andatura sempre più regolare e raggiunse infine il cancello chiuso del giardino illuminato. Si spostò di lato e con agile balzo, appoggiandosi ad una delle sbarre di ferro orizzontali della cancellata, saltò aggrappandosi ed aggiustandosi con i gomiti sul muro di cinta. Guardò in fondo alla radura illuminata a giorno e lesse la scritta dell’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, che sormontava la facciata di una costruzione d’angolo. Nella radura, sbucato da un viale buio, che s’intuiva oltre il cerchio di luce, comparve un cane che si dirigeva di corsa al centro; poco dopo si udì il colpo secco di una fucilata ed il cane di colpo stramazzò a terra. Un secondo animale comparve e sempre di corsa si diresse verso il centro; subito dopo un'altra detonazione lacerò il silenzio della sera e nello spiazzo erboso illuminato a giorno, anche il secondo cane cadde abbattuto.
Elsa Tedeschi guardò in direzione della caserma della polizia veterinaria e vide una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Guardò ancora e vide la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. La donna si issò sulle braccia, saltò sul muro di cinta ed un attimo dopo balzò a terra; in quell’istante udì la fucilata e vide il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. Allora, d’istinto, prima s’incamminò e poi prese a correre verso il centro illuminato della radura, sempre più veloce, pazzamente veloce, nell’abbaglio della luce bianca, una corsa folle; poco dopo il rumore secco dello sparo lacerò il silenzio.
Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.
4.
“Vi sono tre modi di intendere la libertà: come autodeterminazione o auto-causalità; come necessità, che si fonda sullo stesso concetto di autodeterminazione, attribuita però non al singolo, ma alla totalità di cui fa parte: l’ordine naturale, il mondo, la società; come possibilità o scelta, secondo cui la libertà è limitata e condizionata, vale a dire finita.” Andando oltre nella lettura del testo, era spiegata questa terza forma di intendere la libertà: “Mentre le prime due concezioni della libertà hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa appello a questo nucleo, perché intende la libertà come misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso, non è che chi è causa sui o s’identifica con una totalità che è causa sui, ma chi possiede in un grado e misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enunciato il concetto che la libertà consiste in una “giusta misura” (Leggi, 603e); ed ha illustrato questo concetto nel mito di Er. In questo mito, si dice che le anime, prima di incarnarsi sono condotte a scegliere il modello di vita, a cui poi rimarranno legate. “Per la virtù, annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a seconda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità non ha colpa.” (Repubblica, X, 617e) Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causalità, perciò, non può essere addossata alla divinità è limitata in un senso dalle possibilità oggettive, cioè dai modelli di vita disponibili e in un altro senso dalla motivazione giacché, come dice Platone, “la maggior parte delle anime sceglie secondo la consuetudine della vita precedente” (ibidem, 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale libertà è limitata: 1) dal rango delle possibilità oggettive, che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2) dal rango dei motivi della scelta, che possono ancora ridurre, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto, questo concetto di libertà è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la determinazione dell’uomo da parte delle condizioni, a cui la sua attività risponde, ma non ammette che a partire da tali condizioni la scelta sia infallibilmente prevedibile.”
Il dottor Winter chiuse di botto il libro che stava leggendo, “Enciclopedia filosofica”, e guardò verso la porta del suo studio medico, dove in quell’istante qualcuno aveva bussato e aperto, mentre lui diceva “avanti”. Nel riquadro apparvero la sua segretaria e una donna alta, la figura slanciata, i capelli rosso amaranto, l’età ancora giovane, Elsa Tedeschi. Winter posò il libro sulla scrivania e si alzò in piedi, mentre Elsa Tedeschi gli andò incontro allungando la mano: “Tedeschi” disse. Winter strinse la mano: “Winter” disse, mentre congedava con lo sguardo la segretaria, che si ritirò chiudendo la porta. “Ci siamo sentiti stamattina per telefono” disse Elsa Tedeschi. “Certo, collega, ti stavo aspettando.” Winter era un colonnello medico, psichiatra, sulla quarantina, e quindi collega del maggiore, entrambi ufficiali superiori, e non era il caso di frapporre distanze, per la differenza di grado. Girò attorno alla scrivania e venne a sedersi di fronte alla donna. “Sono venuta per un consulto psicologico” disse lei. “Un consiglio” corresse lui.. Elsa Tedeschi tacque, abbassando la testa. Winter si alzò, andò all’attaccapanni, prese il camice bianco, lo indossò e andò a sedersi dietro la scrivania. Quindi fece un gesto con la mano come per dire: “Bene, sentiamo.”
Elsa Tedeschi si raccolse sulla sedia, e sporgendosi leggermente in avanti disse: “Dottore, io ho fatto uno strano sogno, accompagnato da un vuoto di memoria.” “Vogliamo parlare prima del sogno o del vuoto di memoria?” disse Winter. Elsa Tedeschi sembrò riflettere, ma subito disse: “Il sogno”. Il dottore ripeté il cenno incoraggiante con la mano, l’invito a parlare. Elsa Tedeschi prese la borsetta che aveva a tracolla, la depose sulle ginocchia, l’aprì e trasse un foglio: “L’ho scritto” disse. Winter la invitò: “Legga.” Elsa Tedeschi cominciò a leggere: “Era pomeriggio, ma il sole tramontava e già iniziava il crepuscolo. Mi sono incamminata sul viale del parco dell’Appia Antica, quando…” s’interruppe e precisò: “Il parco “Giulia Servilia”, quello qui vicino.” “Sì, va bene” disse Winter. Elsa Tedeschi riprese a leggere “mi è sembrato che qualcuno mi seguisse. Allora, ho affrettato il passo, ma dietro di me ho sentito che anche l’altro accelerava, ho cominciato a correre spaventata e mi sono rifugiata in una macchia, a lato del viale, raggomitolandomi, e cercando di trattenere i gemiti. Ho sentito l’altro vicino a me spiarmi, poi si è allontanato.” Elsa Tedeschi smise di leggere, per riprendere fiato. “È finito?” domandò Winter. La donna scosse la testa e riprese a leggere: “Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora…” Il dottore aveva leggermente picchiato con le dita sul ripiano della scrivania e fatto un cenno con la mano, per interromperla. “Il “Giardino delle fontane” è l’area del parco, dove c’è una sede della polizia veterinaria,” disse Elsa Tedeschi, come a spiegare un particolare che presumeva il dottore non conoscesse. Winter guardò davanti a sé, poi abbassò lo sguardo e disse: “Sono due scene, è cambiato il quadro, come accade nei sogni.” Quindi, tornò a tornò a fissare un punto davanti a sé, mentre Elsa Tedeschi aspettava con il foglio in mano, infine lui rimise a fuoco la sua interlocutrice. In quella pausa di silenzio, qualcuno bussò e aperta la porta, si affacciò nello studio.
Era la moglie del dottore, aveva approfittato della pausa, ed era entrata. Nella sala d’attesa c’era il monitor, collegato alla telecamera interna dello studio. “Accompagno i bambini a nuoto, dopo andiamo a casa, ti aspetto per cena, non tardare.” Quindi, guardò la paziente rivolta verso di lei con il foglio in mano: “Mi scusi l’interruzione, dottoressa” disse. Quindi si rivolse di nuovo al marito: “Beh, ciao”, poi aggiunse: “Scusatemi ancora”, dando un ultimo sguardo alla paziente, prima di ritirarsi e chiudere la porta. Winter fece un gesto, come per esprimere un certo disappunto, poi disse: “Bene dottoressa Tedeschi, continui.”
Elsa Tedeschi posò il foglio sulla scrivania: “Forse è opportuno che lo lasci a lei, così potrà leggerlo con calma, e darmi dopo il suo giudizio.” Winter guardò il foglio sulla scrivania, poi lo prese, e disse: “Mi dica del vuoto di memoria.” “Non ricordo bene quando sono rientrata a casa quella sera” rispose la donna. “La sera del sogno?” interloquì Winter. “Sì,” disse lei. “Quando è successo?” Elsa Tedeschi sembrò riflettere, poi domandò: “La passeggiata nel parco?” Winter accennò di sì. “Una settimana fa, più o meno.” Il dottore rimase ad osservare in silenzio il foglio che aveva preso poco prima, ora giacente a rovescio sulla scrivania, ovviamente non leggeva, pensava. “Quindi il sogno è di una settimana fa?” disse. “Sì,” rispose lei. “E quando l’ha scritto?” domandò lui. “Ho segnato degli appunti, la mattina dopo.” “E ha scritto il testo, prima di venire qui?” interrogò Winter. “Sì, stamattina, dopo averle telefonato.” Il medico rigirò il foglio, limitandosi a dare qualche occhiata allo scritto, poi disse: “Facciamo così, Tedeschi, tu mi scrivi le date e le ore della passeggiata e del sogno, per come le puoi ricostruire, poi me le invii per e-mail.” La donna assentì. “E adesso, scusami un momento.” Winter si alzò e andò alla porta, l’aprì e chiese della prossima visita. La paziente aveva telefonato per confermare che stava arrivando. Winter tornò al suo posto. “Collega Tedeschi, siamo d’accordo?” disse. “Sì, colonnello Winter.” Elsa Tedeschi si alzò, si strinsero la mano, poi la donna si avviò alla porta. “Ci conto,” disse Winter, mentre lei era sulla soglia. La donna sorrise: “Certo, dottore”. E si allontanò, chiudendo la porta dietro di sé. Il dottore rimase un istante a fissare la porta chiusa; si riscosse, prese il foglio sulla scrivania e cominciò a leggerlo.
“Quindi, come risvegliata, sono uscita dall’ombra e mi sono incamminata sul prato illuminato dalle luci del “Giardino delle fontane”. In alto nel cielo scuro brillava il disco splendente di luce della luna, allora ho proseguito con passo regolare e ho raggiunto il cancello chiuso. Sono salita sul muro di cinta, e ho guardato la radura illuminata, in fondo brillava l’insegna luminosa in luce azzurra: “Polizia veterinaria”, sulla facciata di una costruzione d’angolo. È sbucato un cane, che di corsa ha raggiunto il centro della radura, una fucilata secca, e il cane è caduto. Un secondo animale è comparso, e di corsa si è diretto anche lui verso il cerchio di luce al centro della radura. Una seconda fucilata, ed anche il secondo cane è stato abbattuto. Ho guardato in direzione, della caserma della polizia veterinaria e ho visto una guardia in divisa grigia che rialzava il fucile in verticale. Ho guardato ancora e ho visto la stessa guardia abbassare il fucile e prendere di nuovo la mira: un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.”
5.
Winter ripose il foglio sulla scrivania, si chinò di lato, e dalla base inferiore del mobiletto, prese uno dei libri allineati nella scansia. Cominciò a sfogliarlo, poi ritrovò il passo che gli interessava: “Occorre spiegare perché la delusione ha in generale un carattere astenico, perché nei casi di delusione la nostra intera esistenza non ha più basi salde, ma soltanto un “debole” fondamento. Quando il suo accordo con il mondo viene infranto, la nostra esistenza si sente mancare sotto i piedi e rimane sospesa. L’esser sospesa della nostra esistenza assume necessariamente la direzione verso il basso, è anche possibilità di liberazione, o di ascesa; ma se la delusione continua ad essere delusione, il sentirsi sospesi diventa un vacillare, uno sprofondare, un cadere. Il linguaggio attinge a questa struttura ontologica essenziale, ma ad essa attinge anche l’immaginazione del poeta, e soprattutto il sogno.” Winter mise il segnalibro alla pagina e chiuse il volume. Poi riprese il foglio con la descrizione del sogno di Elsa Tedeschi e rilesse l’ultima riga: “Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto.” Fluttuare in aria, ecco il sentimento dell’esistenza sospesa. Winter assunse l’aria soddisfatta: alla struttura ontologica essenziale, la nostra esistenza, attinge anche il sogno. Il libro che poco prima aveva chiuso era “Sogno ed Esistenza” di Ludwig Binswanger (1930).
Bussarono alla porta, la segretaria annunciò l’arrivo della paziente successiva: “Angela Riva”. Una ragazza con i capelli neri lunghi, un elegante vestito scuro con le spalline, che arrivava al di sotto del ginocchio, il trucco del viso e le ciglia ben curate, ma lo sguardo e l’espressione sofferenti, come rivelavano le occhiaie e le labbra serrate. Winter le fece cenno di sedersi, intanto aveva intravisto dietro la segretaria, ferma sulla soglia, la figura di Elsa Tedeschi in piedi nella sala d’attesa. Allora scambiò con la sua collaboratrice un segno d’intesa, che stava a significare un no alla richiesta di pagare la visita da parte della donna. La segretaria, Claudia, assentì, si ritrasse e chiuse la porta. In sala d’attesa, andò a sedersi dietro il bancone della ricezione e comunicò ad Elsa Tedeschi che non doveva fare nessun pagamento, poi continuò a scambiare qualche informazione con lei. Nel frattempo, si sentì un vociare proveniente dallo studio, culminato in un grido: “Ma io sono la vittima!” Le due donne, Claudia e d Elsa Tedeschi, guardarono il monitor, la ragazza era seduta al suo posto e anche il dottore. Claudia scosse la testa, rispondendo allo sguardo interrogativo dell’altra. Angela Riva era stata la protagonista di un caso di cronaca giudiziaria dell’anno precedente. Giovane donna in carriera in un ramo del settore finanziario, sposata con un uomo della sua età, l’intesa con il marito in declino, dopo alcuni anni di matrimonio, aveva preso l’abitudine di andare da sola il fine settimana in discoteca, per rilassarsi dallo stress della vita lavorativa. Una di quelle volte, divenuta l’ultima, era rimasta fino a tardi nella sala da ballo, ed aveva sollecitato lei stessa un passaggio a casa da un amico conosciuto quella sera stessa. L’altro, mentre l’accompagnava a casa, aveva svoltato in una stradina laterale buia, ed approfittando della mancata resistenza dell’amica, dovuto allo stato di ubriachezza, l’aveva violentata. Subito dopo lo stupro, la vittima si era ribellata e aveva aggredito l’assalitore, ma questi l’aveva sbattuta fuori dalla sua autovettura e si era allontanato, lasciandola distesa a terra, in preda alla sbornia. Scoperta da un passante, all’alba, era stata soccorsa e accompagnata all’ospedale, dove era andata a recuperarla il marito. Lo stupratore era stato arrestato e il processo era ancora in corso, i coniugi intanto avevano iniziato una terapia di coppia presso il dottor Winter.
Ultimamente si erano separati, ed ora Angela Riva proseguiva la cura da sola. Si sentì di nuovo che parlava a voce alta e poi gridare: “Ma io sono morta!” Questa volta Elsa Tedeschi ne approfittò per congedarsi: “Arrivederci, Claudia.” Aveva fatto amicizia con la segretaria di Winter, pensava di tornare, ma si allontanava da quell’ambulatorio psichiatrico con un vago senso d’inquietudine.
Quando Winter si era informato sul processo penale in corso, lei aveva ripetuto la descrizione della violenza subita e aveva gridato il suo dolore di vittima. Se prima si faceva bella per provocare il desiderio degli uomini, ora aveva rinunciato per sempre a questo suo ruolo, quello di essere pienamente donna.
La seduta di terapia di Angela Riva assistita dal dottor Winter durò circa un’ora, a metà lui aveva interrotto l’incontro ed aveva preso un caffè con la segretaria, la paziente aveva rifiutato l’invito a unirsi ed era rimasta seduta al suo posto a fissare il vuoto: un deserto di solitudine e disperazione, l’insopportabile sofferenza dell’anima, la luce nera della depressione. Il medico aveva rinnovato la ricetta dei farmaci antidepressivi e aveva congedato la paziente, impegnandola per la seduta successiva.
All’inizio della cura, quando i coniugi si presentavano in coppia, il marito raccontava che ogni volta, come cercava di avvicinarsi a lei, veniva respinto, e quando non lo faceva, lei diceva di essere trascurata, e il commento di Angela Riva era sempre lo stesso: ma io sono la vittima! Un ripetuto grido di dolore irreparabile e di sofferenza continua, che nessuna forma di consolazione avrebbe mai potuto lenire, soltanto una violenza inflitta poteva cancellare una violenza subita. Il freddo tra i due era andato aumentando, alla fine la paziente si era presentata da sola, dopo la rottura, senza però mostrare segni di miglioramento. Nelle sedute seguenti, non avendo più altro da raccontare del suo vissuto, erano aumentati lunghi silenzi di ghiaccio, a cui rispondeva la cura e attenzione di un empatico ascolto del terapeuta. E lei riemergeva dal deserto della sua solitudine con frammentati ricordi di quando era bambina, poi di nuovo silenzio perduto tra quei sogni e visioni, e ancora espressioni di sofferenza nel volto. Angela Riva stava diventando sempre di più, per Winter, oggetto di osservazione e di studio di psichiatria fenomenologica, la sua empatia scemava e prevaleva il distacco della vicinanza, che si esprimeva soltanto come l’immobile linguaggio del corpo. La paziente aveva avvertito questo allontanarsi e sembrava come volersi riaccostare, Winter si alzò dal suo posto, girò attorno alla scrivania e restò in piedi lì davanti: “Adesso devo avere paura anche di lei, dottore?” disse la donna alzando lo sguardo, un amaro sorriso dipinto sul volto. Winter si scostò sorpreso, di nuovo su quel viso l’espressione sofferente, e al medico non restò altro che il silenzio e l’ascolto. Con l’esperienza, lo psicologo aveva imparato a tenere la giusta distanza, per evitare il contagio emotivo, che però andava a discapito della dovuta empatia. Non riusciva a immaginarsi quella ragazza sorridente e felice, forse doveva sospendere la cura.
IL SOGNO DEI FAGIANI
Alla fine delle vacanze estive, Winter aveva riaperto l’ambulatorio, dove si recava il pomeriggio. Non aveva avuto più notizie di Elsa Tedeschi, di cui aveva però studiato il caso e tratto le sue conclusioni. La donna aveva fatto realmente una passeggiata nel parco “Giulia Servilia”, il giorno o giorni prima della notte del sogno. Winter si era recato sul posto, per accertare la corrispondenza dei luoghi con il racconto fattone, ed aveva scoperto che non vi era affatto un’area recintata denominata “Giardino delle fontane” né tanto meno una caserma della polizia veterinaria, ma soltanto un’area cani abbastanza limitata. I luoghi della seconda scena del sogno e tutta la storia della corsa dei cani e delle fucilate nella radura illuminata dalla luna, Elsa Tedeschi se li era veramente sognati. Oppure questi ricordi e i particolari fantasticati appartenevano ad altri tempi e ad altri luoghi, verosimilmente alterati nelle immagini oniriche. Questo sogno era un vissuto esistenziale della donna, di cui soltanto lei poteva decifrare il significato concreto. In astratto, lui poteva soltanto concludere che il fluttuare in aria e il passare dalla luce all’ombra, nella parte finale del sogno, come da lei riferito, corrispondeva al passaggio da uno stato euforico ad un successivo stato disforico.
Una tale conclusione gli era suggerita dalla teoria del sogno di Binswanger, come aveva già riscontrato e annotato in relazione al fluttuare in aria e poi cadere in basso. Lo psichiatra e filosofo svizzero, inoltre, nel suo saggio, esprime questo cambiamento, oltre che con il movimento direzionale dell’alto e del basso, anche con l’oscurarsi della luce: “Altre volte il rovesciamento di un flusso di vita felice e trionfante in un altro di disagio e di timore, si esprime attraverso lo scomparire dei colori, che prima risplendevano alla luce del sole, e l’oscurarsi della luce e addirittura della vista, come mostra in modo particolarmente evidente il sogno dei fagiani nel “Viaggio in Italia” di
Goethe. – Sognai, vale a dire, che io approdava in una barca piuttosto grande, in un’isola fertile, ricca di vegetazione, dove sapevo trovarsi in abbondanza bellissimi fagiani, e tosto mi posi cogli abitanti dell’isola alla caccia di quelli, e ne facemmo larga preda, portandoli nella barca. Erano bensì fagiani, ma in quella guisa che le cose in sogno si trasformano, presentavano code lunghissime, variopinte quanto quelle del pavone, e degli uccelli del paradiso. Li allogammo nella barca, con le teste rivolte all’interno, facendone un mucchio, di cui pendevano le code al di fuori della barca, brillando alla luce del sole in modo meraviglioso, lasciando appena tanto spazio che bastasse al timoniere, ed ai remiganti. Vagammo con quel raro carico sul mare tranquillissimo, ed io stavo pensando a quanti fra miei amici avrei potuto far dono di quegli animali stupendi. Giunto in un porto abbastanza ampio, ingombro di scafi, io mi smarrii nel passare dall’uno all’altro ponte di questi, per cercare un luogo sicuro, dove io potessi approdare con la mia piccola barca.” E Goethe così conclude: “Fallaci visioni nelle quali ci dilettiamo, perché scaturendo da noi stessi, hanno di certo un’analogia con l’insieme della nostra esistenza e dei nostri destini.”
Binswanger commenta: “Questo sogno, che risale a circa un anno prima dell’inizio del viaggio in Italia e della sua stesura, il fatto che rimanga a lungo nella memoria di Goethe e che questi lo citi di continuo, sono elementi che consentono allo psicologo di vedere distintamente la labilità e la precarietà dell’esistenza di Goethe, in quel periodo, rispetto alla quale egli, con istinto sicuro, riuscì a riprendersi con la fuga in Italia, verso il sud, o il sole, i colori, verso nuovi valori dello spirito e dell’amore.”
Ecco, passare dai colori notturni a quelli della luce meridiana del giorno, significava passare da uno stato emotivo di labilità e precarietà esistenziale ad altro ricco di nuovi valori dello spirito e dell’amore. Le fantasie del sogno non rappresentano altro che lo specchio di “insieme della nostra esistenza e dei nostri destini” come dice Goethe.
Questa analisi esistenziale dei sogni, interpretati come rappresentativi dell’esistenza di chi sogna, di cui Binswanger coglie lo spunto nelle parole di Goethe, costituisce il fondamento della tesi portata avanti dallo psicologo svizzero, che si rifà alla filosofia esistenziale di Heidegger, in riferimento alla fenomenologia di Husserl. Questo tema, apparentemente così complesso, per chi non è addentro a tematiche di filosofia e psicologia, appariva abbastanza chiaro al dottor Winter, che ne aveva approfondito lo studio, non solo per i suoi fini professionali, ma anche per una sua propria personale erudizione. Egli, infatti, trovava diletto anche nella lettura di semplici romanzi, in cui tali temi venivano immaginosamente trattati, alla stregua di una certa analogia tra le visioni dei sogni e le fantasie dei poeti, come esplicitamente afferma lo scrittore argentino Jorge Louis Borges. In una delle trenta conversazioni da lui tenute con il giornalista Osvaldo Ferrari alla Radio municipale di Buenos Aires, nel 1984, in seguito pubblicate nel giornale “Tiempo argentino”, in quella sul sogno, rispondendo a una domanda dell’intervistatore – “Lei, negli ultimi tempi, ha identificato l’atto di scrivere con quello di sognare” – Borges specifica: “Sì, e anche l’atto di vivere con quello di sognare.” Ed ecco l’equazione tra sognare scrivere vivere: immagini dei sogni, fantasie poetiche, realtà della vita, formano un tutt’uno dell’esistenza, quel modo d’essere dell’uomo nel mondo, un Esserci (Dasein), che si caratterizza per la sua capacità di progettarsi ed esistere. Per Heidegger, le strutture fondamentali dell'Esserci, come esse si presentano nella vita quotidiana, sono: gettatezza, decisione, progettualità.
In verità, alla base delle sue convinzioni, il dottor Winter aveva un altro fondamento filosofico, che contrastava con la struttura dell’Esserci heideggeriano: trovarsi gettato nel mondo senza aver scelto le proprie condizioni. Come egli sapeva, ogni uomo sceglie il proprio paradigma di vita, quando si trova nel prato delle anime prima di incarnarsi, anche se poi in vita dimentica di essere stato lui a scegliersi, avendo oltrepassato il fiume dell’oblio. Da questa scelta, anche se limitata ai paradigmi di vita di uomini e animali, che l’araldo aveva raccolto dalle ginocchia di Lachesi e disteso sul prato, in numero pur sempre maggiore delle anime presenti, in verità, deriva la struttura heideggeriana dell’Esserci della “decisione”, descritta come la capacità di assumere decisioni e scelte in un progetto di vita. E sempre da quella scelta iniziale deriva quell’ulteriore struttura dell’Esserci, indicata come “progettualità”, ossia la dimensione di un futuro in cui l'Esserci progetta la propria esistenza. E dovendola progettare secondo un modello possibile, questo rientra nell’insieme dei modelli di vita giacenti nel grembo della Moira, Lachesi. Sull’incarnazione di un’anima nella vita animale, Winter aveva una sua particolare convinzione, che non contraddiceva comunque il mito platonico del “Fedro” combinato con quello della “Repubblica”.
Bussarono alla porta dello studio e Claudia, la segretaria, annunciò la visita di “O’ pazziariello”, così come avevano soprannominato quell’anziano paziente, che subito dopo entrò, avanzando a passettini di danza, l’aria ilare. Winter sbuffò – ma non aveva scelto lui quella vita? – la segretaria abbozzò un sorriso di circostanza e si ritirò.
EREIGNIS
Indipendentemente dal fatto se la scelta di sé stesso fosse stata fatta platonicamente dall’anima di Winter prima d’incarnarsi o, alla maniera di Heidegger, dopo essere stato gettato nel mondo, non si sa bene da chi, il destino (Geschick)?, un dono dell’Essere che si fa evento?, sta di fatto che adesso l’evento (Ereignis) consisteva nell’assistere allo show di “o’ pazzariello”, e il dottore rimase pazientemente in attesa. Questa volta la recita non durò molto: il maresciallo in pensione, Zennaro Esposito, entrato mimando passi di danza, gridò: “Dottore, mia figlia si sposa! Ho portato i confetti.” E così dicendo, gli porse la bomboniera. Winter la prese e disse: “Sono felice.” E Zennaro lo abbracciò e baciò due volte sulle guance. “Dottore, questa volta non vi faccio perdere tempo, là fuori una signora vi aspetta” e strizzò l’occhio sinistro, voltandosi verso la porta. “Zennaro, grazie” si limitò a rispondere Winter, mentre lo accompagnava all’uscita. Un anno prima, l’uomo si era presentato con una depressione profonda, la moglie malata e molto sofferente aveva scelto di andarsene nell’altro mondo, ed ora il vedovo sembrava avere elaborato il lutto. Era passato dallo stato disforico ad una fase di minore sconforto, fino ad un recente eccesso di euforia. Un po' come i bambini piccoli, che passano facilmente dal pianto al riso, pensò Winter.
Poco dopo, entrò la paziente in attesa, Armonia Levolle, signora quarantenne, di padre italiano e madre fiamminga. Il marito l’aveva abbandonata, lasciandola con un bambino piccolo e in uno stato di grave prostrazione. Nel corso delle sedute, una volta Winter le aveva letto alcuni brani di un romanzo, ma lei era rimasta insensibile, sembrava più un rapporto accademico tra professore e allievo, che tra medico e malato. Prima di andarsene, però, la donna aveva chiesto se poteva prendere il libro, e Winter, sebbene sorpreso, aveva subito acconsentito.
Ora, Armonia Levolle era venuta a consegnare il libro: “Nell’azzurro profondo”. Si trattava di un volumetto di quattro capitoli, lei indicò il passo del quarto, che il dottore le aveva letto la prima volta. Questa volta in silenzio, Winter si era messo a leggerlo: “Scendendo verso sud il paesaggio sembra mutare, ad un tratto il treno rallenta. Passano alcune case, sul pendio si raccoglie l'abitato di un paese e sullo sfondo si può osservare la distesa azzurra del mare. La viaggiatrice contempla incantata la trasparenza azzurrina dell'aria sfumata nella limpidità del cielo, avvolgente lo specchio lucente dell'azzurro del mare. Rivede Ponte, l'estate dell'anno prima, i colori perduti, la luce mediterranea e viene colta da un sentimento d'intensa nostalgia.” Smise di leggere, si era accesa la spia luminosa dell’interfono. Winter pigiò sul tasto dell’apparecchio, la lucina divenne verde, si udì la voce della segretaria: “È arrivato il signor Torriconi.” Winter guardò l’orologio, era arrivato con mezz’ora d’anticipo, un paziente complicato. “Fallo accomodare e digli di aspettare” disse. Si udì la voce di Claudia: “Va bene, ci penso io.” Il dottore spense l’interfono, con aria perplessa. Armonia Levolle fece l’atto di alzarsi, l’espressione interrogativa, ma Winter la fermò con un gesto della mano, e ostentò un segno di noncuranza, increspando leggermente il labbro inferiore. Quindi, andò a ricercare il punto della pagina del libro, in cui si era interrotto, saltò alcune righe, e riprese a leggere, questa volta, a voce alta: “Il treno si ferma e lei continua a contemplare l'incanto di luce azzurrina del mare ed i tenui colori sfumati nell'azzurro dell'aria e del cielo di quel tiepidissimo dicembre. Abbandonate le brume e la nebbia, il freddo e la notte, quando il cavaliere del Nord era giunto per la prima volta su queste sponde del Mediterraneo, doveva avere trattenuto il respiro di fronte allo spettacolo, che si presentava al suo sguardo, superiore ad ogni sua possibilità di meraviglia. Quando il treno riparte ed il paesaggio muta, scomparendo il mare e tornando la campagna e le colline, svanisce il ricordo e viene smarrito l'incanto.” Winter, che era l’autore del libro, pubblicato sotto altro nome, sapeva di avere ripreso l’immagine di stupore e di meraviglia da Scott Fitzgerald, l’autore del “Grande Gatsby”. Ed ora, nel vedere il volto della sua paziente illuminato dalla stessa espressione di meraviglia, capiva che lei aveva iniziato l’ultimo percorso della sua guarigione. In quel momento, il silenzio fu interrotto dal secco rumore di uno sparo, proveniente dalla saletta di attesa. Winter si alzò di scatto e si precipitò fuori: sulla soglia del bagno attiguo, di spalle, Claudia aveva lanciato un grido. Il dottore la scostò e guardò all’interno: il corpo di Torriconi giaceva a terra senza vita, una pozza di sangue attorno alla testa, il braccio ripiegato, la pistola scivolata di mano. L’Essere si era fatto evento (Ereignis).
UNA FOLATA DI VENTO
L’altro giorno ero seduto in terrazzino e stavo leggendo il racconto “Il musicista di Dublino”, quando sono stato investito da una folata di vento gelido – l’improvviso calo delle temperature, dovuto a una massa d’aria fredda proveniente dall’Est e dalla Russia siberiana. Allora, sono rientrato in casa, e sono andato a sedermi davanti al computer, per elaborare e scrivere il saggio sull’ontologia di Heidegger, derivata dalla fenomenologia di Husserl. Poco dopo ho sentito un bip, e sull’iPhone ho ricevuto un’immagine dall’America, le cascate del Niagara. Era un selfie di Winter, ritratto con la moglie Eleonora, la segretaria Claudia, e i loro due bambini, tutti sorridenti e felici, nei loro mantelli trasparenti antipioggia. Tra qualche giorno, ritorneranno da questa breve vacanza in America. Ho guardato meglio la figura di Eleonora, leggermente di profilo, mi sembrava come se avesse una certa dilatazione dell’addome, forse il vento delle cascate le gonfiava il vestito. O forse, ah! Evviva!
LA CONSECUTIO TEMPORUM
La mattina dopo, Winter con Claudia e la moglie finirono di ripulire e disinfettare il bagno, poi chiusero i locali e se ne andarono tutti e tre insieme. Lo studio riaprì soltanto una settimana dopo. Era ormai l’autunno, ma dopo giorni di freddo, erano ritornati il bel tempo e il sole dell’ottobre romano. Nel primo pomeriggio, quando il dottore si recò nello studio, mentre arrivava, vide una figura scura dall’altra parte del marciapiede venire in direzione contraria, e avvertì come una strana sensazione del passaggio di un’ombra, che lo investì e subito disparve. Entrando nello studio, vide Claudia seduta al banco della ricezione, che gli mostrava una busta: “È venuta Angela Riva,” disse. “Ha pagato l’intera parcella della cura,” aggiunse. “Bene,” disse Winter “abbiamo altri impegni, oggi?” Claudia gli porse la busta: “Ha lasciato un messaggio riservato a lei, dottore.” Sulla busta era scritto: “Al dottor Winter”. Non era chiusa, e mentre estraeva il foglio, Winter domandò a Claudia: “L’hai letto?” La segretaria non rispose. Sul foglio c’era scritto: “Al dottor Winter. Avrei voluto qualcuno che si fosse ricordato di me. Angela Riva.” Winter sollevò lo sguardo su Claudia. “Vuole telefonarle?” disse lei. Il dottore non rispose: “Avrei voluto qualcuno.” Ecco, lei non aveva nessuno. “No, più tardi chiamala, e chiedile se vuole continuare la cura oppure no.” Poi entrò nel suo studio, si andò a sedere dietro alla scrivania, accese il computer, e si mise a leggere la posta elettronica. Tra le tante e-mail, andò ad aprire quella con il mittente: “Elsa Tedeschi”. Era datata diversi giorni prima: “Caro dottor Winter, le scrivo da Torino, qui è autunno, e dalla città si vedono le montagne alpine imbiancate di neve. Le scrivo per definire il racconto del mio sogno sui cani. Nel parco di “Giulia Servilia” non c’è il canile e neppure la caserma della polizia veterinaria. Quelle immagini si riferivano a delle cronache, di cui avevo letto sui giornali, e visto i servizi in televisione, di un assalto degli animalisti, che avevano liberato tutti i cani rinchiusi nel canile di Roma Sud. Ho elaborato le mie fantasie, come mi aveva raccomandato di fare, recuperandole nella mia realtà esistenziale. Resterò a Torino ancora a lungo. Quando tornerò a Roma, passerò a trovarla. La sua amica Elsa Tedeschi.”
“È segno di salute psichica il fatto che colui che sogna riesca a oggettivare in buona parte i propri desideri e timori in immagini drammatiche, dalle quali il contenuto emotivo sembra derivare solo in via secondaria.” Così dice Binswanger. E questo giudizio dello psichiatra svizzero suonava come una conferma, per la lettura del sogno di Elsa Tedeschi e della sua vicenda esistenziale, anche alla luce di quanto le aveva comunicato con la sua e-mail. Infatti, il contenuto emotivo non prevaleva sull’azione drammatica, separandola dalla sua stessa forma corporea, per usare le parole di Binswanger, risolvendosi al di fuori di essa. In verità, ripensandoci, al dottor Winter venne un dubbio, si disse, abbastanza accademico, ma volle verificare, e andò a rileggersi la descrizione del sogno della Tedeschi, soprattutto nella parte finale. “Un altro cane correva nella radura illuminata. Ho scavalcato il muro, sono balzata a terra, ho udito la fucilata e ho visto il cane in corsa arrestarsi di colpo e cadere. D’istinto mi sono messa correre sempre più velocemente verso la luce bianca, e nell’abbaglio è risuonato ancora un colpo secco di fucile. Tutto si è annebbiato oscurandosi, mi sembrava di fluttuare in aria, nel buio mi sono ritrovata sveglia nel mio letto. Poi devo essermi riaddormentata.” Un primo giudizio da lui dato sul “fluttuare in aria”, a cui era seguito il risveglio, era stato più che altro un riscontro alla teoria del sogno di Binswanger. Guardò il testo scritto: al “fluttuare in aria” seguiva “nel buio”, contiguo al risveglio. E poi lei, forse, si era addormentata. Era come se a quel sogno mancasse qualcosa. Quel risveglio era stato improvviso, una forma di angoscia, che però non era stata raccontata. Noi possiamo dire che il racconto del sogno, fatto dalla Tedeschi, era rimasto incompleto: “Nello splendore di luce, tutto si annebbiò e si rabbuiò di colpo: Elsa Tedeschi continuava a correre, ma come fluttuando nel vuoto, in lievi passi al rallentatore, nel cuore della notte nera, a cui si votava con antica devozione, andando incontro agli dèi Mani di Antiochia e D’Anchise.” Non era questo un sogno di morte?
Commentando il sogno di un suo paziente, Binswanger scrive: “Il paziente stesso definisce questo sogno un sogno di morte. Questo librarsi senza forma, questa completa dissoluzione della forma corporea è un elemento negativo dal punto di vista diagnostico.” Winter rimase pensieroso, poi non si sa come e perché gli vennero in mente gli antichi Mani, divinità romane che rappresentavano le anime dei defunti, forse il riferimento gli era stato suggerito dalla storia di Giulia Servilia. Quale storia? Winter si sentiva un po' confuso, stava per chiudere il file, relativo ad Elsa Tedeschi, quando aprì la seconda e-mail inviatale dalla donna. Il messaggio non era lungo: “Caro dottor Winter, qui a Torino sono stata raggiunta dal mio conoscente ed amico, il maestro D’Anchise, il musicista di Dublino. In breve, il maestro ha musicato un testo poetico del professore Romano Antiochia, relativo a una donna evocata nei suoi versi. Ed io mi trovo qui per questo, non so se lei, dottore, sia stato a conoscenza del caso di cronaca, la morte sospetta di Antiochia, Legato del Ministro degli Esteri, avvenuta in Abruzzo, a San Silvano sul mare. Ma questo non credo che interessi il mio sogno. Con amicizia, Elsa Tedeschi.” Che cosa significava: “Ed io mi trovo qui per questo”? Winter non sapeva di Antiochia né tanto meno di D’Anchise, di entrambi i quali in quel momento aveva per la prima volta contezza. Era confuso, non capiva, quella donna era andata a Torino, sulle tracce di un fantasma, evocato da un altro fantasma, ed aveva trovato un uomo in carne ed ossa, il maestro D’Anchise, il musicista di Dublino. Ecco, era l’inizio di una nuova storia, quindi chiuse ed archiviò il file relativo ad Elsa Tedeschi.
Riprese e rilesse il messaggio di Angela Riva: “Avrei voluto qualcuno che si fosse ricordato di me.” Il messaggio era chiaro, era indirizzato a lui, Winter. Era lui quel “qualcuno”, da cui Angela Riva si congedava. La regola grammaticale della consecutio temporum era stata rispettata: la frase principale, con il condizionale imperfetto del verbo, concordava con il congiuntivo passato della frase relativa, ed esprimeva l'amarezza di un desiderio disatteso, scivolato via nel fluire del tempo.
Uscendo dallo studio, Winter chiese alla segretaria se avesse telefonato ad Angela Riva. Non era raggiungibile, disse Claudia. “Domenica, sei a pranzo da noi?” domandò Winter. “No,” disse lei, “sono ritornata a stare con Giorgio.” La trasferta americana aveva funzionato, il giovane si era ingelosito. “Chiudi tu?” disse Winter. “Sì,” rispose Claudia. Il dottore uscì e si avviò in direzione di casa. Dove andiamo? Sempre a casa.
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