PRESENTAZIONE Gentili lettrici e gentili lettori, ho l’onore di presentare alla vostra attenzione l’articolo della prof Mariella Savarani, “Le scritture aurorali”, commento al mimo “Il quadrato semiotico”, la cui stesura è reperibile in coda al post: “Le pagine rare” del 19 marzo 2025. Con questo lavoro, la prof Savarani inizia la collaborazione con la nostra Rivista letteraria on-line “Il Raccoglitore”, come esperta per la ricerca e pubblicazione delle pagine rare del Blog, e di altri scritti del Blogger (il nostro amatissimo Blogger) non presenti sul Blog, in quanto usciti dal cerchio dell’apparire del Blog ed entrati nel cerchio del non apparire del Blog. Il cerchio del non apparire del Blog è il cerchio dell’apparire, dove appare il non apparire del Blog. Questi scritti, in quanto eterni, come eterno è il Blog ed eterni gli infiniti cerchi dell’apparire, nonché il cerchio dell’apparire, in cui appare l’intrecciarsi infinito di questi cerchi, non sono finiti nel nulla, ma rientrano nel cerchio, in cui appare l’intreccio infinito dei cerchi, come apparire finito ogni volta di ognuno di questi cerchi. Nello scusarmi con voi per questa breve digressione, ispirata al linguaggio dello scomparso filosofo, il quale appare nel cerchio dell’apparire, dove appare la sua scomparsa, vi lascio alla lettura dell’elzeviro della prof Mariella Savarani. Grazie per l’attenzione prestata e buona lettura. Il direttore pro tempore di “Il Raccoglitore”, Silvio dei Silvio di Piedimonte.
Studio sulla struttura del testo e commento analitico delle proposizioni principali del mimo: “Il quadrato semiotico”.
A) Esame del titolo e del sottotitolo
Il quadrato semiotico ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
1. Nel titolo vengono enunciati i temi di cui tratterà il mimo, che è una “particolare forma di commedia basata sulla rappresentazione realistica e buffonesca della vita, sviluppatasi come genere teatrale e letterario, in versi e in prosa, presso gli antichi Greci e Romani.” Nella produzione letteraria del nostro autore, in specie all’inizio, il mimo è consistito in una descrizione attuale – il termine “attuale” va inteso come tempo presente in svolgimento [1] – di alcuni momenti di vita dell’autore, un autoritratto del momento, o anche un escamotage per descriverne tratti di vita e commentarli ironicamente. In tutti i mimi da lui scritti, i personaggi sono due, con rari interventi esterni di terzi, in genere l’autore stesso, che “scendendo” in scena diventa personaggio. Il mimo è servito anche per la costruzione di trame narrative, che diventavano veri e propri racconti, a volte anche di lungo respiro.
2. Nel mimo presente, “Il quadrato semiotico”, questa espressione viene soltanto enunciata, ma di essa non si darà spiegazione, in quanto l’argomento non è stato attualmente approfondito, come ricavabile dalle battute finali. “Il tempo delle apparenze e degli inganni” è il tempo raccontato nel testo narrativo, come esempio del più generale tempo raccontato in storie di finzione. In questo senso si tratta di una mimesi del tempo reale, ed ecco perché è detto “tempo delle apparenze”, a cui si aggiunge un ulteriore complemento di specificazione: “degli inganni”, per sottolineare il carattere di ironia che colora la finzione. Si precisa che l’ironia di cui parliamo fa riferimento al più ampio concetto dell’ironia romantica, di cui al testo hegeliano, pubblicato sul Blog il 22 marzo 2025.
3. “I due nunzi dell’evo” sono i due interlocutori, e l’evo a cui si riferiscono, dal latino aevum, dal greco αἰών, è Aion o Eone. «Πολλὰ γὰρ τίκτει Μοῖρα τελεσσιδώ/ τειρ' Αἰών τε Χρόνου παῖς», «Molte cose compie Moira, che adempie, e Aion, il figlio di Kronos» (Euripide, Eraclidi, 899-900) Si tratta del tempo in senso assoluto, adorato come una divinità nelle grandi religioni misteriche dell’età ellenistico-romana, il Tempo inteso come entità trascendente ed eterna, contrapposta a Kronos, che è la "durata" temporale misurata dall'uomo. Nella finzione del mimo, i personaggi della storia vivono nel tempo cronologico, Kronos, il tutto del tempo [2] messo a confronto con l’eternità di Aion, in cui vive l’autore, allo stesso modo in cui nella concezione aristotelica dell’Universo, questo viene diviso nelle due sfere del mondo sublunare dei mortali, soggetto alla generazione e alla corruzione, e del mondo celeste degli immortali, eterno e incorruttibile. Una tale distinzione vuole riflettere la dualità tra mondo di finzione, quello dei personaggi, e mondo reale, quello dell’autore. Al primo viene assegnato, secondo la concezione aristotelica dell’Universo, lo status di mondo sublunare dei mortali, soggetto a generazione e corruzione, al secondo la sfera celeste eterna ed incorruttibile degli immortali, i divini, i theoi.
[1] “L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’altro, il nostro divenire-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo, e proprio per questo, ciò che non siamo più. Dobbiamo distinguere non solo il passato dal presente, ma più profondamente, il presente dall’attuale. L’attuale non è la prefigurazione, magari utopistica, di un avvenire ancora della nostra storia, ma piuttosto l’essere del nostro divenire.” (Deleuze e Guattari, “Che cosa è la filosofia”)
[2] In verità, il tutto del tempo è il tempo lineare che ha raggiunto la sua pienezza, la pienezza dei tempi. Il riferimento è al tempo escatologico ereditato dalla tradizione giudaico-cristiana: il tempo dell’ultimo giorno. Eschaton vuol dire "ultimo", e all’ultimo giorno si realizza quello che era stato annunciato sin dall’inizio. In questa dimensione, il tempo diventa storia con un inizio ed una fine, contrapponendosi al tempo ciclico eterno, un tempo cosmico che si esaurisce e si rinnova nel corso della sua continua e incessante perfetta rotazione. Questa visione richiama l’anno platonico, nella cosmologia moderna, il tempo impiegato dall'asse terrestre per compiere un giro completo a seguito del movimento di precessione degli equinozi (circa 25.772 anni). Su questo tema del tempo e le sue sfaccettature e la relazione con l’eternità, si rinvia ad altra sede, per una discussione più approfondita.
3. “- Da quanto hai detto, Livio, si deduce che il signore seduto là fuori, per suo diletto, intento a leggere e scrivere sul terrazzino di casa, ad ogni nuova alba, è un “recitante”. - E noi gli “spettatori”, Nera.- Di uno spettacolo, che oltre alla persona in scena, rivela sullo sfondo tutta la poesia dei colori cangianti al sorgere del giorno.” Ecco, il passaggio serviva a descrivere ulteriormente il quadretto, ma anche a tracciare il relativo commento da un punto di vista filosofico del significato del greco theatron e del latino spectare, sulla base di un verosimile studio, compiuto in proposito. E inoltre vengono aggiunte alcune note di colore poetico, anche un modo per alludere con la solita ironia all’attività di poeta dell’autore. E qui non si possono sottacere i versi sulla poesia del primo Montale, che esordisce con la sua lirica: “I limoni” Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. Montale mette subito avanti il suo proposito di come fare poesia, prendendo le distanze dalla tradizione poetica precedente, quella dei “poeti laureati”, che nella ricercatezza dello stile – in metafora, il muoversi tra le piante dai nomi poco usati – trovano il loro modo di esprimersi. In realtà, quella dichiarata rinuncia ai “nomi poco usati” ci sembra più il lapsus di una convinzione contraria, se andiamo a guardare il suo linguaggio poetico, che nell’insolito delle parole o locuzioni, trova la sua preziosità espressiva. Ma è soltanto una contraddizione apparente, in quanto la maniera di cercare realtà più marginali sta a significare una disposizione a voler scrutare più nel profondo della superficie delle cose, interrogarne il significato essenziale che sfugge. Vedi, in questi silenzi in cui le cose s'abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto, talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Abbiamo citato Montale, perché ha influenzato molto il nostro autore. Infatti, “I gialli dei limoni” è il titolo di un suo romanzo, in verità una raccolta di storie con un unico protagonista, che nell’epigrafe di una di esse cita alcuni versi finali della lirica … s'affolta il tedio dell'inverno sulle case, la luce si fa avara – amara l'anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni.
4. “ - Costretti dalla fantasia del nostro poeta creatore di immagini ed esistenze irreali alla sveglia nell’ultima ora della notte, possiamo contemplare ogni volta la meraviglia di un cielo blu inchiostro, che gradatamente schiarisce, albeggiando, per rivelare subito la sua tinta azzurrina, oltre le cimase e i tetti delle case, mentre l’aurora rosata annuncia l’imminente arrivo del giorno, nella sfolgorante luce rosso oro del sole. - E scrive di queste albe e della loro poesia, lì sul terrazzino.” La poesia dell’alba, dove si avverte un’eco nietzscheana: il nostro autore è influenzato da Montale, ma non è Montale. Come disse quel campione di ciclismo, tutti andiamo in bicicletta, ma una cosa è pedalare, altro correre in una gara ciclistica. Abbiamo detto che si sente una certa eco nietzscheana, avvalendoci di un particolare biografico, dovuto a testimonianze orali. La stesura del mimo, “Il quadrato semiotico”, pare sia stata compiuta nel periodo in cui l’autore era reduce da una trasferta parigina, alla fine degli anni Dieci del XXI secolo. In un teatro d’essai della capitale francese aveva assistito alla lettura di testi poetici, tratti dallo Zarathustra di Nietzsche ed era rimasto colpito dalla recita di un brano, verosimilmente: “Prima del levar del sole”. E certo era stato colpito dalla bravura della interprete, registrandone il ricordo.
5. “- Schizzi di un autoritratto compiuto attraverso lo scambio di battute tra due dialoganti “fantasma”, noi due, rivelati dalla luce della sua “fantasia” ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza.” È questo quasi certamente la componente strutturale fondante dell’intera struttura del mimo, attorno a cui sono costruite e si reggono le altre componenti dell’impianto strutturale generale. Osserviamo che se vogliamo parlare di strutturalismo, dobbiamo ricordare che ogni struttura, nel nostro caso la struttura di un testo narrativo, si compone come trama generale di tutte le altre componenti strutturali particolari, ognuna valida per sé come struttura a sé stante. Tra queste non possiamo non individuare nella configurazione dell’intero tessuto componenziale, la componente strutturale fondante, la cui mancanza può compromettere l’unitarietà dell’intera struttura, rendendola frammentaria, pur nelle autonomie delle sue diverse strutture. Il mimo traccia gli schizzi di un autoritratto mediante la voce di due fantasmi, creature della fantasia dell’autore, che lo ritraggono. Sulla distinzione tra fantasia e fantasmi, l’autore si è espresso altre volte, qui la distinzione riflette l’apparire dei fantasmi come sagome sorgenti dalla luce (φῶς, phos) della fantasia (φαίνομαι, phaínomai). “Ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza”. Quest’ultima osservazione appare provocatoria, nel senso di chiamare (“vŏcāre”) a discutere un problema, come si scopre subito nella battuta seguente.
6. “- Sul “nulla”, Decio Livio, nutro dei dubbi, essendo noi due nullità, nel senso di esistenti privi di valore, come dire personaggi negletti che si fanno avanti, ma vengono ricacciati indietro, perché il “potere” li considera nullità.” Questa proposizione contesta la precedente, l’implicita esistenza del nulla – “tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza” –, di cui il nostro filosofo preferito, e non solo lui, ma ognuno dei filosofi che affrontano il problema, coglie la contraddittorietà. L’affermazione “essendo noi due nullità” discende dalla loro origine, il nulla, che nel momento in cui li entifica, ovvero li porta all’essere, li nullifica, ovvero li riporta al nulla. E qui l’autore coglie un aspetto fondamentale della volontà nullificatrice, (che si ritiene) creatrice del potere, scivolando dall’aspetto filosofico a quello politico. Quando in una competizione, si considera l’avversario una nullità, viene in rilievo tutta l’arroganza del potere e della sua volontà annientatrice, ma anche l’insoddisfatto desiderio di ribellione, per sottrarsi a questa sudditanza.
7. “ - E non potremmo noi due, io e te, o solidale Nera, a nome di tutta l’infinità schiera delle vuote parvenze, i “negati”, gli umili e gli oppressi, rovesciare questo arrogante “potere”? - No, non possiamo, non avendo né essendo il potere. - Ah! - Possiamo soltanto “servirlo”, nel nostro caso svolgere il nostro ruolo di intermediari tra la realtà per noi eterna del signorotto, che ci tiene in suo potere, ed il tempo, quello in cui vivono le nostre consimili ombre, personaggi esistenti soltanto nella realtà dei romanzi e della letteratura.” Su quest’ultimo aspetto dell’illusorietà dei personaggi letterari, cfr. post 22 marzo 2025, “L’ironia romantica”, paragrafo “Le figure del nulla”. Il discorso che sembrava scivolare nel campo politico, viene subito riportato su quello estetico filosofico. È da notare che quello che manca in questo passaggio è l’anello della rivoluzione, che rovesciando la dittatura del potere, instaura immediatamente quella propria. Quest’assenza è data dal carattere metafisico del problema, espresso in termini e linguaggio politico, la filosofia (pensiero), che precede e regge la politica (azione). Il termine metafisico sta a indicare la differenza tra il mondo “fisico” dei personaggi, esseri viventi nel tempo, e quello “metafisico” dell’autore, rovesciando la prospettiva del reale, in quanto le ombre, ovvero i fantasmi generati dalla fantasia, diventano esseri viventi, e il vero vivente che ha generato le ombre, diventa un mito, essendo vivo soltanto nel racconto (mythos) dei suoi personaggi fantasma. E tale rovesciamento rispecchia un certo pensiero filosofico, ascrivibile a Nietzsche, della morte di Dio e della nascita del divino dell’uomo, così come interpretato da Jung. Nel commentare alcune parole di Nietzsche dal tono profetico (cfr. post del 22 maggio 2024, “Il grande despota”, explicit), Jung ne riconosce la profondità psicologica e cerca di capire dove conducono le sue asserzioni: la deificazione degli uomini. Infatti, la nobiltà a cui Nietzsche allude non è quella creata ad arte, ma una nobiltà che crea sé stessa: “Ci vogliono molti nobili e di varia specie perché ci sia nobiltà.” Che cosa intende dire? È lo stesso Nietzsche a spiegarlo: “O come dissi una volta in metafora: – Questo appunto è la divinità: che esistano dèi, ma non esista un dio!” Nella “Gaia Scienza”, che precede lo “Zarathustra”, Nietzsche aveva annunciato la morte di Dio, ma qui, osserva Jung, Dio non sembra così defunto. È l’elemento della divinità, che sfuggito alla dogmatica del cristianesimo di un Dio Persona, s’incarna negli uomini, per cui non ci sarà più Dio, ma soltanto dèi. “Si tratta di qualcosa come l’intuizione di un processo d’individuazione nell’uomo, un processo che alla fine condurrà alla deificazione dell’uomo o alla nascita di Dio nell’uomo. A questo punto ci troviamo di fronte a un dilemma: deificazione dell’uomo o nascita di Dio nell’uomo?” In definitiva, possiamo concludere che sia possibile una sorta di comunione tra l’elemento divino e l’elemento umano. E come si realizza? Ecco la risposta del mimo.
11. “- Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità del suo ieri e del suo domani, la porta carraia, da cui si dipartono le due strade del passato e del futuro, dove ora egli sosta sentinella in disarmo?” Nella “soglia dell’eternità” è adombrata una scena dello “Zarathustra” di Nietzsche, riconducibile alla sua dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Sul tema, riportiamo l’estratto di un precedente scritto: “Il sorgere del nulla”.
– “Guarda, – proseguii, – questo attimo! Dalla soglia di questa porta carraia, l’attimo, corre all’indietro una lunga eterna strada: dietro a noi c’è un’eternità.” Bisogna riflettere più a fondo, “non prendere alla leggera la cosa”, per capire quello che Zarathustra sta dicendo. “Guarda l’attimo!” Si può “guardare” l’attimo, pensarlo? Nell’atto di pensarlo, l’attimo non è già passato? L’ora (nunc), il momento, l’attimo è fuggito. Nietzsche ha intitolato il capitolo: “La visione e l’enigma”. La sua “visione” è quella dell’attimo. Che cosa significa questo? Guardando alle spalle, verso la strada che va all’indietro, Zarathustra vede l’eternità del passato e così commenta: “Non devono forse tutte le cose che possono correre aver percorso già una volta questa strada? Tutto ciò che può accadere non deve già una volta essere accaduto, essersi compiuto, esser passato?” Da dove viene fuori questa convinzione a Zarathustra, posta in forma interrogativa? Se una cosa che accade non fosse già accaduta da dove cade? Dal gigante Caso? “E se tutto già fu: che pensi tu, nano, di questo momento?” Passando, il momento confluirà nel già fu, e quindi: “Non deve questa soglia della porta (l’attimo) essere già stata?” Guardare l’attimo, pensarlo, significa pensare la sua eternità. “E non sono collegate tutte le cose in modo che questo momento trascini con sé tutte le cose venture? E per conseguenza anche sé stesso?” Il momento che “può” (“kann”) venire e quindi anche non venire, “deve” (“muss”) venire. Il suo essere stato è eterno, e in quanto eterno, non può non tornare. “Giacché tutto quello che può correre, anche su questa lunga strada in avanti, deve correre ancora!” Ma non si può interrompere il processo di questo eterno divenire e sparire nel Nulla? L’obiezione (il nichilismo) è latente perché tutto il discorso di Zarathustra è dubitativo, essendo formato da tutta una serie di interrogativi, sebbene concatenati tra loro. Infatti dirà di avere paura dei propri pensieri e di quello che dietro ad essi si celava, appunto il latente nichilismo. –
Come si fa ad essere se non si è già stati? Se l’è, presente, non è sostenuto dall’essere, infinito, come dire che sempre è, presente, allora il suo fondamento è in sé stesso, un caso, un accadere che accade, senza nessuna altra giustificazione che il suo accadere. Su quest’aspetto, in cui si riconosce il problema dell’eternità dell’istante, si è espresso Gilles Deleuze: “Secondo Aion, soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all'infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente. O meglio è l'istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri il futuro e il passato.” (“Logica del Senso”, Milano, Feltrinelli editore, 2005, p. 147)
“Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità”. La battuta contiene l’interrogativo sulla fine dell’esistenza, su cui rinviamo ai due post: “Il destino dell’anima”, 7 settembre 2021; “Le cose ultime” 11 dicembre 2023. Entrambi gli scritti si completano a vicenda in quella visione del mondo platonico-cristiano, di cui si annuncia la fine nel detto di Nietzsche: “Dio è morto.” E discutendo della sua dottrina dell’eterno ritorno, riconducibile peraltro alla ruota del Dharma della filosofia orientale, poco sopra, avevamo posto il quesito: “Ma non si può interrompere il processo di questo eterno divenire e sparire nel Nulla?” Una risposta possiamo trovarla nella dottrina buddista, di cui accenniamo in brevi linee in “La freccia avvelenata”, uno scritto che verrà ripubblicato in seguito.
12. “ - Ed assieme a lui sapremo anche noi del quadrato semiotico, scivolando oltre l’apparenza e gli inganni di questa sua dubbia eternità, in cui si diverte a comporre le sue scritture aurorali. - Subsequitur umbram aurora. - Alla notte segue l’aurora.”
L’attenzione concentrata sul personaggio e sulle sue attività rivela il vero soggetto del mimo, non il quadrato semiotico di Greimas, ma “le scritture aurorali” dell’autore, ossia un giudizio ironico non tanto sulle sue letture e interessi di studio, quanto sulla sua produzione letteraria, che dovrebbe discendere da quelle letture e quegli studi. In tal senso il giudizio viene orientato e allo stesso tempo distratto dall’equivocità dell’aggettivo “aurorale”, nel suo doppio significato materiale e metaforico. E giunti a questo punto, non possiamo sottrarci ad una breve disamina sull’impiego di questo aggettivo da parte dell’autore. Da dove salta fuori? Diciamo Heidegger. E come? A distanza di una decina d’anni circa dalla fine del ciclo dei suoi studi classici e giuridici, per distrarsi dai suoi impegni professionali e familiari, il nostro autore riprese a coltivare i suoi interessi per la lettura di testi di narrativa e filosofia. La scoperta del filosofo Emanuele Severino lo riportò ad Heidegger e da questi a Nietzsche e in genere alla riscoperta di tutto il pensiero filosofico, primi fra tutti Platone e Aristotele.
Sul “pensiero aurorale”, un’espressione di Heidegger (che suggerisce “le scritture aurorali” del nostro autore), riferita all’inizio della storia del pensiero, la filosofia greca, riportiamo alcune considerazioni tratte dall’introduzione del libro di Umberto Galimberti, “Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente.” 2020. “Questo libro è una guida alla lettura di Heidegger e, come ogni guida, conduce da un “primo inizio” a un “altro inizio” come lo chiama Heidegger, per giungere al quale occorre attraversare l’intero pensiero occidentale, che è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone. […] Nasce da qui la necessità di reperire un pensiero alternativo a questo modo di pensare, le cui tracce possono essere rinvenute nel pensiero aurorale, il “primo inizio (der erste Anfang)” come lo chiama Heidegger, dove il pensiero si rivolge alla physis, alla natura, non nell’accezione giudaico- cristiana che fa della natura un ente creato da Dio e consegnato all’uomo per il suo “dominio” come si legge nel Genesi, ma come quell’orizzonte immutabile che, al dire di Eraclito, “nessun dio e nessun uomo fece, ma sempre è stato, ed è, e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne”. [Fr. 30] Osserviamo che questo pensiero discende dall’annuncio di Nietzsche della “morte di Dio”, come dire l’annuncio della fine del mondo platonico-cristiano, ovvero la fine della concezione di un mondo ideale e di un orizzonte divino al di sopra del mondo umano. Sulla morte di Dio, cfr. “Un dolore infinito”, post 28 marzo 2025. Concludiamo, riportando un brano di Heidegger, tratto da “Il detto di Anassimandro”, in “Sentieri interrotti”, (Holzwege,1950), e con due brevi annotazioni. “L’epoca (ἐποχή) dell’essere appartiene all’essere stesso. Essa è pensata a partire dall’oblio dell’essere. Dall’epocalità dell’essere deriva la natura epocale del suo destino [Geschick] in cui è [ist] la storia autentica del suo mondo. Ogni qual volta l’essere si mantiene in sé nel suo destino, ne e-viene in maniera improvvisa e imprevedibile un Mondo. Ogni epoca della storia del Mondo è un’epoca dell’erramento. L’essenza epocale dell’essere rientra nel carattere segretamente temporale dell’essere e caratterizza l’essenza del tempo, pensata nell’essere. Ciò che si intende di solito per “tempo” è una rappresentazione vuota del tempo, desunta dall’ente preso come oggetto. […] In tutto ciò che chiamiamo “greco”, ha luogo pensato epocalmente l’inizio dell’epoca dell’essere. Questo inizio – a sua volta, concepito epocalmente – è il mattino del destino [Geschick] nell’essere a partire dall’essere.” Questo brano meriterebbe un discorso a parte su quello che è il pensiero di Heidegger sul Tempo, rimasto inespresso – il linguaggio filosofico non è capace di esprimerlo – nella sua opera incompiuta: “Essere e Tempo” (Sein und Zeit).
Comunque, aggiungiamo due notazioni indirette su questa ἐποχή, sospensione di giudizio sulla realtà, con prima una citazione di Hegel, che esprime in altre parole questo rapporto tra pensiero (filosofia) ed essere. “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.” La seconda è una citazione di Nietzsche, ed è relativa all’epigrafe e all’incipit di un suo volume: “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali.” (1881) “Vi sono tante aurore, che devono ancora risplendere” Rigveda. Il riferimento al pensiero orientale non era estraneo a Nietzsche: il continuo circolo dell’esistenza, da cui si aspira ad uscire, per entrare nel nulla cosciente, il Nirvana. Come abbiamo visto, la dottrina dell’eterno ritorno si ispirava a questa visione, esplicitata nell’epigrafe. “In questo libro troviamo al lavoro un “essere sotterraneo”, uno che trivella, scava, scalza. Si vedrà, posto che si abbiano occhi per un tale lavoro di profondità – come egli avanzi lentamente, cautamente, con delicata inesorabilità, senza che si tradisca troppo l’affanno, che ogni lunga privazione d’aria e di luce comporta: lo si potrebbe perfino dire contento del suo oscuro lavoro. Non pare forse che una qualche fede lo guidi, che una consolazione lo ricompensi? Che voglia forse avere la sua lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, nascosto, enigmatico, perché sa che avrà anche il suo mattino, l sua redenzione, la sua “aurora”… Certo egli farà ritorno: non chiedetegli che cosa vuole egli là sotto, egli stesso, questo apparente Trofonio [dio ctonio] ed essere sotterraneo, ve lo dirà, quando di nuovo si sarà “fatto uomo”. Si disimpara del tutto a tacere, se così a lungo si è stati, come lui, una talpa, soli.” Qui Nietzsche rivendica la sua solitudine di pensatore, ma in questo lavoro di scavo sotterraneo alle radici delle passioni umane, è stato accomunato a Freud e Marx. Su questo argomento si rimanda al post del 30 giugno 2023: “Il fondo enigmatico e buio”. “Aurora” è il pensiero aurorale rivolto non alla natura, come in Heidegger ed Hegel, la fisica (filosofia) dei preplatonici, ma all’uomo o meglio alle radici dell’uomo. “Subsequitur umbram aurora. - Alla notte segue l’aurora”. La massima sta a significare che alla notte segue il giorno, al buio la luce, in simbolo dal fondo buio della coscienza, l’inconscio, alla luce della ragione; ma sta anche a significare che questa coppia di contrari è inscindibile, e riflette quel fenomeno psichico (dell’anima), che Jung ha denominato enantiodromia: muoversi in direzione opposta. È il lato oscuro della coscienza, l’inconscio. In questa prospettiva, “le scritture aurorali” hanno la doppia ambizione: lo schiarirsi della coscienza, l’inizio di nuove creazioni artistiche.
IL QUADRATO SEMIOTICO ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
- Non se ne va il caldo di questa estate che se ne va. - Eh, no! Non se ne va. - E neppure il nostro scrittore dell’alba, di cui è a noi toccato in sorte lo spettacolo (theatron). - Decio Livio, vogliamo precisare per l’ennesima volta quest’ ultimo concetto? - Il termine in origine, come rivela l’etimologia greca theaomai “guardare”, stava ad indicare il pubblico sulla gradinata che “guardava” la rappresentazione della tragedia sulla scena dell’arena; successivamente passò ad indicare il luogo, teatro, dove si tenevano queste rappresentazioni ed anche estensivamente lo “spettacolo” stesso. Ed invero quest’ultimo termine, in latino spectare guardare, designa allo stesso modo la “recita” in scena da parte di attori di un copione teatrale o di altro genere anche musicale o di danza. - Da quanto hai detto, Livio, si deduce che il signore seduto là fuori, per suo diletto, intento a leggere e scrivere sul terrazzino di casa, ad ogni nuova alba, è un “recitante”. - E noi gli “spettatori”, Nera. - Di uno spettacolo, che trascendendo la persona in scena, rivela sullo sfondo tutta la poesia dei colori cangianti al sorgere del giorno. - Costretti dalla fantasia del nostro poeta creatore di immagini ed esistenze irreali alla sveglia nell’ultima ora della notte, possiamo contemplare ogni volta la meraviglia di un cielo blu inchiostro, che gradatamente schiarisce, albeggiando, per rivelare subito la sua tinta azzurrina, oltre le cimase e i tetti delle case, mentre l’aurora rosata annuncia l’imminente arrivo del giorno, nella sfolgorante luce rosso oro del sole. - E scrive di queste albe e della loro poesia, lì sul terrazzino. - Schizzi di un autoritratto compiuto attraverso lo scambio di battute tra due dialoganti “fantasma”, noi due, rivelati dalla luce della sua “fantasia” ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza. - Sul “nulla”, Decio Livio, nutro dei dubbi, essendo noi due nullità, nel senso di esistenti privi di valore, come dire personaggi negletti che si fanno avanti, ma vengono ricacciati indietro, perché il “potere” li considera nullità.
- E non potremmo noi due, io e te, o solidale Nera, a nome di tutta l’infinità schiera delle vuote parvenze, i “negati”, gli umili e gli oppressi, rovesciare questo arrogante “potere”? - No, non possiamo, non avendo né essendo il potere. - Ah! - Possiamo soltanto “servirlo”, nel nostro caso svolgere il nostro ruolo di intermediari tra la realtà per noi eterna del signorotto, che ci tiene in suo potere, ed il tempo, quello in cui vivono le nostre consimili ombre, personaggi esistenti soltanto nella realtà dei romanzi e della letteratura. - E come? - Vivendo nell’Evo, che è l’intermedio tra l’eternità ed il tempo e recandone l’annuncio. - Non ho capito. - Una sorta di tempo degli angeli, creature spirituali che vivono una eternità, l’Evo. - Però! - Ascolta, perplesso Livio, il “signorotto” che sta facendo? - Legge un libro. - E di quali argomenti tratta il testo in lettura? - Del quadrato semiotico. - E tu come puoi saperlo? Forse, azzardo la risposta io stesso, perché capisci immediatamente quello che accade nell’eterno e nel tempo? - Più o meno. - E sai dirmi di codesta figura di geometria logica? - No, perché nell’eternità della sua lettura del quadrato semiotico, il nostro “informatore”, nel senso del potente che ci informa, dà forma e vita, ma anche conoscenza di sé e del suo mondo creato, non ha ancora capito di che si tratta. - Un po’ duro di comprendonio, vero? - Nera, non parlare così. - Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità del suo ieri e del suo domani, la porta carraia, da cui si dipartono le due strade del passato e del futuro, dove ora egli sosta sentinella in disarmo? - Ed assieme a lui sapremo anche noi del quadrato semiotico, scivolando oltre l’apparenza e gli inganni di questa sua dubbia eternità, in cui si diverte a comporre le sue scritture aurorali. - Subsequitur umbram aurora. - Alla notte segue l’aurora.
[N. d, B.] Il post “Le pagine rare” del 19 marzo 2025 è uscito dal cerchio dell'apparire di questo Blog, e pertanto il mimo, "Il quadrato semiotico", è stato riprodotto qui sopra. Chi leggerà questa variazione? Il lettore, ovviamente. Quale? Quello deciso dal destino. Quale destino? Il tuo destino, bambino. Come? Un'altra volta. Ah!
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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PRESENTAZIONE
Gentili lettrici e gentili lettori, ho l’onore di presentare alla vostra attenzione l’articolo della prof Mariella Savarani, “Le scritture aurorali”, commento al mimo “Il quadrato semiotico”, la cui stesura è reperibile in coda al post: “Le pagine rare” del 19 marzo 2025. Con questo lavoro, la prof Savarani inizia la collaborazione con la nostra Rivista letteraria on-line “Il Raccoglitore”, come esperta per la ricerca e pubblicazione delle pagine rare del Blog, e di altri scritti del Blogger (il nostro amatissimo Blogger) non presenti sul Blog, in quanto usciti dal cerchio dell’apparire del Blog ed entrati nel cerchio del non apparire del Blog. Il cerchio del non apparire del Blog è il cerchio dell’apparire, dove appare il non apparire del Blog. Questi scritti, in quanto eterni, come eterno è il Blog ed eterni gli infiniti cerchi dell’apparire, nonché il cerchio dell’apparire, in cui appare l’intrecciarsi infinito di questi cerchi, non sono finiti nel nulla, ma rientrano nel cerchio, in cui appare l’intreccio infinito dei cerchi, come apparire finito ogni volta di ognuno di questi cerchi. Nello scusarmi con voi per questa breve digressione, ispirata al linguaggio dello scomparso filosofo, il quale appare nel cerchio dell’apparire, dove appare la sua scomparsa, vi lascio alla lettura dell’elzeviro della prof Mariella Savarani. Grazie per l’attenzione prestata e buona lettura.
Il direttore pro tempore di “Il Raccoglitore”, Silvio dei Silvio di Piedimonte.
LE SCRITTURE AURORALI
Studio sulla struttura del testo e commento analitico delle proposizioni principali del mimo: “Il quadrato semiotico”.
A) Esame del titolo e del sottotitolo
Il quadrato semiotico ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni
Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
1. Nel titolo vengono enunciati i temi di cui tratterà il mimo, che è una “particolare forma di commedia basata sulla rappresentazione realistica e buffonesca della vita, sviluppatasi come genere teatrale e letterario, in versi e in prosa, presso gli antichi Greci e Romani.” Nella produzione letteraria del nostro autore, in specie all’inizio, il mimo è consistito in una descrizione attuale – il termine “attuale” va inteso come tempo presente in svolgimento [1] – di alcuni momenti di vita dell’autore, un autoritratto del momento, o anche un escamotage per descriverne tratti di vita e commentarli ironicamente. In tutti i mimi da lui scritti, i personaggi sono due, con rari interventi esterni di terzi, in genere l’autore stesso, che “scendendo” in scena diventa personaggio. Il mimo è servito anche per la costruzione di trame narrative, che diventavano veri e propri racconti, a volte anche di lungo respiro.
2. Nel mimo presente, “Il quadrato semiotico”, questa espressione viene soltanto enunciata, ma di essa non si darà spiegazione, in quanto l’argomento non è stato attualmente approfondito, come ricavabile dalle battute finali.
“Il tempo delle apparenze e degli inganni” è il tempo raccontato nel testo narrativo, come esempio del più generale tempo raccontato in storie di finzione. In questo senso si tratta di una mimesi del tempo reale, ed ecco perché è detto “tempo delle apparenze”, a cui si aggiunge un ulteriore complemento di specificazione: “degli inganni”, per sottolineare il carattere di ironia che colora la finzione. Si precisa che l’ironia di cui parliamo fa riferimento al più ampio concetto dell’ironia romantica, di cui al testo hegeliano, pubblicato sul Blog il 22 marzo 2025.
3. “I due nunzi dell’evo” sono i due interlocutori, e l’evo a cui si riferiscono, dal latino aevum, dal greco αἰών, è Aion o Eone.
«Πολλὰ γὰρ τίκτει Μοῖρα τελεσσιδώ/ τειρ' Αἰών τε Χρόνου παῖς», «Molte cose compie Moira, che adempie, e Aion, il figlio di Kronos» (Euripide, Eraclidi, 899-900)
Si tratta del tempo in senso assoluto, adorato come una divinità nelle grandi religioni misteriche dell’età ellenistico-romana, il Tempo inteso come entità trascendente ed eterna, contrapposta a Kronos, che è la "durata" temporale misurata dall'uomo. Nella finzione del mimo, i personaggi della storia vivono nel tempo cronologico, Kronos, il tutto del tempo [2] messo a confronto con l’eternità di Aion, in cui vive l’autore, allo stesso modo in cui nella concezione aristotelica dell’Universo, questo viene diviso nelle due sfere del mondo sublunare dei mortali, soggetto alla generazione e alla corruzione, e del mondo celeste degli immortali, eterno e incorruttibile. Una tale distinzione vuole riflettere la dualità tra mondo di finzione, quello dei personaggi, e mondo reale, quello dell’autore. Al primo viene assegnato, secondo la concezione aristotelica dell’Universo, lo status di mondo sublunare dei mortali, soggetto a generazione e corruzione, al secondo la sfera celeste eterna ed incorruttibile degli immortali, i divini, i theoi.
[1] “L’attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’altro, il nostro divenire-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo, e proprio per questo, ciò che non siamo più. Dobbiamo distinguere non solo il passato dal presente, ma più profondamente, il presente dall’attuale. L’attuale non è la prefigurazione, magari utopistica, di un avvenire ancora della nostra storia, ma piuttosto l’essere del nostro divenire.” (Deleuze e Guattari, “Che cosa è la filosofia”)
[2] In verità, il tutto del tempo è il tempo lineare che ha raggiunto la sua pienezza, la pienezza dei tempi. Il riferimento è al tempo escatologico ereditato dalla tradizione giudaico-cristiana: il tempo dell’ultimo giorno. Eschaton vuol dire "ultimo", e all’ultimo giorno si realizza quello che era stato annunciato sin dall’inizio. In questa dimensione, il tempo diventa storia con un inizio ed una fine, contrapponendosi al tempo ciclico eterno, un tempo cosmico che si esaurisce e si rinnova nel corso della sua continua e incessante perfetta rotazione. Questa visione richiama l’anno platonico, nella cosmologia moderna, il tempo impiegato dall'asse terrestre per compiere un giro completo a seguito del movimento di precessione degli equinozi (circa 25.772 anni). Su questo tema del tempo e le sue sfaccettature e la relazione con l’eternità, si rinvia ad altra sede, per una discussione più approfondita.
3. “- Da quanto hai detto, Livio, si deduce che il signore seduto là fuori, per suo diletto, intento a leggere e scrivere sul terrazzino di casa, ad ogni nuova alba, è un “recitante”.
- E noi gli “spettatori”, Nera.- Di uno spettacolo, che oltre alla persona in scena, rivela sullo sfondo tutta la poesia dei colori cangianti al sorgere del giorno.”
Ecco, il passaggio serviva a descrivere ulteriormente il quadretto, ma anche a tracciare il relativo commento da un punto di vista filosofico del significato del greco theatron e del latino spectare, sulla base di un verosimile studio, compiuto in proposito. E inoltre vengono aggiunte alcune note di colore poetico, anche un modo per alludere con la solita ironia all’attività di poeta dell’autore. E qui non si possono sottacere i versi sulla poesia del primo Montale, che esordisce con la sua lirica: “I limoni”
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Montale mette subito avanti il suo proposito di come fare poesia, prendendo le distanze dalla tradizione poetica precedente, quella dei “poeti laureati”, che nella ricercatezza dello stile – in metafora, il muoversi tra le piante dai nomi poco usati – trovano il loro modo di esprimersi. In realtà, quella dichiarata rinuncia ai “nomi poco usati” ci sembra più il lapsus di una convinzione contraria, se andiamo a guardare il suo linguaggio poetico, che nell’insolito delle parole o locuzioni, trova la sua preziosità espressiva. Ma è soltanto una contraddizione apparente, in quanto la maniera di cercare realtà più marginali sta a significare una disposizione a voler scrutare più nel profondo della superficie delle cose, interrogarne il significato essenziale che sfugge.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Abbiamo citato Montale, perché ha influenzato molto il nostro autore. Infatti, “I gialli dei limoni” è il titolo di un suo romanzo, in verità una raccolta di storie con un unico protagonista, che nell’epigrafe di una di esse cita alcuni versi finali della lirica
… s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni.
4. “ - Costretti dalla fantasia del nostro poeta creatore di immagini ed esistenze irreali alla sveglia nell’ultima ora della notte, possiamo contemplare ogni volta la meraviglia di un cielo blu inchiostro, che gradatamente schiarisce, albeggiando, per rivelare subito la sua tinta azzurrina, oltre le cimase e i tetti delle case, mentre l’aurora rosata annuncia l’imminente arrivo del giorno, nella sfolgorante luce rosso oro del sole. - E scrive di queste albe e della loro poesia, lì sul terrazzino.”
La poesia dell’alba, dove si avverte un’eco nietzscheana: il nostro autore è influenzato da Montale, ma non è Montale. Come disse quel campione di ciclismo, tutti andiamo in bicicletta, ma una cosa è pedalare, altro correre in una gara ciclistica.
Abbiamo detto che si sente una certa eco nietzscheana, avvalendoci di un particolare biografico, dovuto a testimonianze orali. La stesura del mimo, “Il quadrato semiotico”, pare sia stata compiuta nel periodo in cui l’autore era reduce da una trasferta parigina, alla fine degli anni Dieci del XXI secolo. In un teatro d’essai della capitale francese aveva assistito alla lettura di testi poetici, tratti dallo Zarathustra di Nietzsche ed era rimasto colpito dalla recita di un brano, verosimilmente: “Prima del levar del sole”. E certo era stato colpito dalla bravura della interprete, registrandone il ricordo.
5. “- Schizzi di un autoritratto compiuto attraverso lo scambio di battute tra due dialoganti “fantasma”, noi due, rivelati dalla luce della sua “fantasia” ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza.”
È questo quasi certamente la componente strutturale fondante dell’intera struttura del mimo, attorno a cui sono costruite e si reggono le altre componenti dell’impianto strutturale generale. Osserviamo che se vogliamo parlare di strutturalismo, dobbiamo ricordare che ogni struttura, nel nostro caso la struttura di un testo narrativo, si compone come trama generale di tutte le altre componenti strutturali particolari, ognuna valida per sé come struttura a sé stante. Tra queste non possiamo non individuare nella configurazione dell’intero tessuto componenziale, la componente strutturale fondante, la cui mancanza può compromettere l’unitarietà dell’intera struttura, rendendola frammentaria, pur nelle autonomie delle sue diverse strutture. Il mimo traccia gli schizzi di un autoritratto mediante la voce di due fantasmi, creature della fantasia dell’autore, che lo ritraggono. Sulla distinzione tra fantasia e fantasmi, l’autore si è espresso altre volte, qui la distinzione riflette l’apparire dei fantasmi come sagome sorgenti dalla luce (φῶς, phos) della fantasia (φαίνομαι, phaínomai).
“Ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza”. Quest’ultima osservazione appare provocatoria, nel senso di chiamare (“vŏcāre”) a discutere un problema, come si scopre subito nella battuta seguente.
6. “- Sul “nulla”, Decio Livio, nutro dei dubbi, essendo noi due nullità, nel senso di esistenti privi di valore, come dire personaggi negletti che si fanno avanti, ma vengono ricacciati indietro, perché il “potere” li considera nullità.”
Questa proposizione contesta la precedente, l’implicita esistenza del nulla – “tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza” –, di cui il nostro filosofo preferito, e non solo lui, ma ognuno dei filosofi che affrontano il problema, coglie la contraddittorietà.
L’affermazione “essendo noi due nullità” discende dalla loro origine, il nulla, che nel momento in cui li entifica, ovvero li porta all’essere, li nullifica, ovvero li riporta al nulla. E qui l’autore coglie un aspetto fondamentale della volontà nullificatrice, (che si ritiene) creatrice del potere, scivolando dall’aspetto filosofico a quello politico. Quando in una competizione, si considera l’avversario una nullità, viene in rilievo tutta l’arroganza del potere e della sua volontà annientatrice, ma anche l’insoddisfatto desiderio di ribellione, per sottrarsi a questa sudditanza.
7. “ - E non potremmo noi due, io e te, o solidale Nera, a nome di tutta l’infinità schiera delle vuote parvenze, i “negati”, gli umili e gli oppressi, rovesciare questo arrogante “potere”? - No, non possiamo, non avendo né essendo il potere. - Ah! - Possiamo soltanto “servirlo”, nel nostro caso svolgere il nostro ruolo di intermediari tra la realtà per noi eterna del signorotto, che ci tiene in suo potere, ed il tempo, quello in cui vivono le nostre consimili ombre, personaggi esistenti soltanto nella realtà dei romanzi e della letteratura.” Su quest’ultimo aspetto dell’illusorietà dei personaggi letterari, cfr. post 22 marzo 2025, “L’ironia romantica”, paragrafo “Le figure del nulla”.
Il discorso che sembrava scivolare nel campo politico, viene subito riportato su quello estetico filosofico. È da notare che quello che manca in questo passaggio è l’anello della rivoluzione, che rovesciando la dittatura del potere, instaura immediatamente quella propria. Quest’assenza è data dal carattere metafisico del problema, espresso in termini e linguaggio politico, la filosofia (pensiero), che precede e regge la politica (azione). Il termine metafisico sta a indicare la differenza tra il mondo “fisico” dei personaggi, esseri viventi nel tempo, e quello “metafisico” dell’autore, rovesciando la prospettiva del reale, in quanto le ombre, ovvero i fantasmi generati dalla fantasia, diventano esseri viventi, e il vero vivente che ha generato le ombre, diventa un mito, essendo vivo soltanto nel racconto (mythos) dei suoi personaggi fantasma.
E tale rovesciamento rispecchia un certo pensiero filosofico, ascrivibile a Nietzsche, della morte di Dio e della nascita del divino dell’uomo, così come interpretato da Jung. Nel commentare alcune parole di Nietzsche dal tono profetico (cfr. post del 22 maggio 2024, “Il grande despota”, explicit), Jung ne riconosce la profondità psicologica e cerca di capire dove conducono le sue asserzioni: la deificazione degli uomini. Infatti, la nobiltà a cui Nietzsche allude non è quella creata ad arte, ma una nobiltà che crea sé stessa: “Ci vogliono molti nobili e di varia specie perché ci sia nobiltà.” Che cosa intende dire? È lo stesso Nietzsche a spiegarlo: “O come dissi una volta in metafora: – Questo appunto è la divinità: che esistano dèi, ma non esista un dio!” Nella “Gaia Scienza”, che precede lo “Zarathustra”, Nietzsche aveva annunciato la morte di Dio, ma qui, osserva Jung, Dio non sembra così defunto. È l’elemento della divinità, che sfuggito alla dogmatica del cristianesimo di un Dio Persona, s’incarna negli uomini, per cui non ci sarà più Dio, ma soltanto dèi. “Si tratta di qualcosa come l’intuizione di un processo d’individuazione nell’uomo, un processo che alla fine condurrà alla deificazione dell’uomo o alla nascita di Dio nell’uomo. A questo punto ci troviamo di fronte a un dilemma: deificazione dell’uomo o nascita di Dio nell’uomo?”
In definitiva, possiamo concludere che sia possibile una sorta di comunione tra l’elemento divino e l’elemento umano. E come si realizza? Ecco la risposta del mimo.
11. “- Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità del suo ieri e del suo domani, la porta carraia, da cui si dipartono le due strade del passato e del futuro, dove ora egli sosta sentinella in disarmo?”
Nella “soglia dell’eternità” è adombrata una scena dello “Zarathustra” di Nietzsche, riconducibile alla sua dottrina dell’eterno ritorno dell’identico. Sul tema, riportiamo l’estratto di un precedente scritto: “Il sorgere del nulla”.
– “Guarda, – proseguii, – questo attimo! Dalla soglia di questa porta carraia, l’attimo, corre all’indietro una lunga eterna strada: dietro a noi c’è un’eternità.”
Bisogna riflettere più a fondo, “non prendere alla leggera la cosa”, per capire quello che Zarathustra sta dicendo. “Guarda l’attimo!” Si può “guardare” l’attimo, pensarlo? Nell’atto di pensarlo, l’attimo non è già passato? L’ora (nunc), il momento, l’attimo è fuggito. Nietzsche ha intitolato il capitolo: “La visione e l’enigma”. La sua “visione” è quella dell’attimo. Che cosa significa questo?
Guardando alle spalle, verso la strada che va all’indietro, Zarathustra vede l’eternità del passato e così commenta: “Non devono forse tutte le cose che possono correre aver percorso già una volta questa strada? Tutto ciò che può accadere non deve già una volta essere accaduto, essersi compiuto, esser passato?” Da dove viene fuori questa convinzione a Zarathustra, posta in forma interrogativa? Se una cosa che accade non fosse già accaduta da dove cade? Dal gigante Caso?
“E se tutto già fu: che pensi tu, nano, di questo momento?” Passando, il momento confluirà nel già fu, e quindi: “Non deve questa soglia della porta (l’attimo) essere già stata?” Guardare l’attimo, pensarlo, significa pensare la sua eternità. “E non sono collegate tutte le cose in modo che questo momento trascini con sé tutte le cose venture? E per conseguenza anche sé stesso?” Il momento che “può” (“kann”) venire e quindi anche non venire, “deve” (“muss”) venire. Il suo essere stato è eterno, e in quanto eterno, non può non tornare. “Giacché tutto quello che può correre, anche su questa lunga strada in avanti, deve correre ancora!”
Ma non si può interrompere il processo di questo eterno divenire e sparire nel Nulla? L’obiezione (il nichilismo) è latente perché tutto il discorso di Zarathustra è dubitativo, essendo formato da tutta una serie di interrogativi, sebbene concatenati tra loro. Infatti dirà di avere paura dei propri pensieri e di quello che dietro ad essi si celava, appunto il latente nichilismo. –
Come si fa ad essere se non si è già stati? Se l’è, presente, non è sostenuto dall’essere, infinito, come dire che sempre è, presente, allora il suo fondamento è in sé stesso, un caso, un accadere che accade, senza nessuna altra giustificazione che il suo accadere.
Su quest’aspetto, in cui si riconosce il problema dell’eternità dell’istante, si è espresso Gilles Deleuze: “Secondo Aion, soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all'infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente. O meglio è l'istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri il futuro e il passato.” (“Logica del Senso”, Milano, Feltrinelli editore, 2005, p. 147)
“Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità”. La battuta contiene l’interrogativo sulla fine dell’esistenza, su cui rinviamo ai due post: “Il destino dell’anima”, 7 settembre 2021; “Le cose ultime” 11 dicembre 2023.
Entrambi gli scritti si completano a vicenda in quella visione del mondo platonico-cristiano, di cui si annuncia la fine nel detto di Nietzsche: “Dio è morto.”
E discutendo della sua dottrina dell’eterno ritorno, riconducibile peraltro alla ruota del Dharma della filosofia orientale, poco sopra, avevamo posto il quesito: “Ma non si può interrompere il processo di questo eterno divenire e sparire nel Nulla?” Una risposta possiamo trovarla nella dottrina buddista, di cui accenniamo in brevi linee in “La freccia avvelenata”, uno scritto che verrà ripubblicato in seguito.
12. “ - Ed assieme a lui sapremo anche noi del quadrato semiotico, scivolando oltre l’apparenza e gli inganni di questa sua dubbia eternità, in cui si diverte a comporre le sue scritture aurorali. - Subsequitur umbram aurora. - Alla notte segue l’aurora.”
L’attenzione concentrata sul personaggio e sulle sue attività rivela il vero soggetto del mimo, non il quadrato semiotico di Greimas, ma “le scritture aurorali” dell’autore, ossia un giudizio ironico non tanto sulle sue letture e interessi di studio, quanto sulla sua produzione letteraria, che dovrebbe discendere da quelle letture e quegli studi. In tal senso il giudizio viene orientato e allo stesso tempo distratto dall’equivocità dell’aggettivo “aurorale”, nel suo doppio significato materiale e metaforico. E giunti a questo punto, non possiamo sottrarci ad una breve disamina sull’impiego di questo aggettivo da parte dell’autore. Da dove salta fuori? Diciamo Heidegger. E come? A distanza di una decina d’anni circa dalla fine del ciclo dei suoi studi classici e giuridici, per distrarsi dai suoi impegni professionali e familiari, il nostro autore riprese a coltivare i suoi interessi per la lettura di testi di narrativa e filosofia. La scoperta del filosofo Emanuele Severino lo riportò ad Heidegger e da questi a Nietzsche e in genere alla riscoperta di tutto il pensiero filosofico, primi fra tutti Platone e Aristotele.
Sul “pensiero aurorale”, un’espressione di Heidegger (che suggerisce “le scritture aurorali” del nostro autore), riferita all’inizio della storia del pensiero, la filosofia greca, riportiamo alcune considerazioni tratte dall’introduzione del libro di Umberto Galimberti, “Heidegger e il nuovo inizio. Il pensiero al tramonto dell’Occidente.” 2020.
“Questo libro è una guida alla lettura di Heidegger e, come ogni guida, conduce da un “primo inizio” a un “altro inizio” come lo chiama Heidegger, per giungere al quale occorre attraversare l’intero pensiero occidentale, che è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone. […] Nasce da qui la necessità di reperire un pensiero alternativo a questo modo di pensare, le cui tracce possono essere rinvenute nel pensiero aurorale, il “primo inizio (der erste Anfang)” come lo chiama Heidegger, dove il pensiero si rivolge alla physis, alla natura, non nell’accezione giudaico- cristiana che fa della natura un ente creato da Dio e consegnato all’uomo per il suo “dominio” come si legge nel Genesi, ma come quell’orizzonte immutabile che, al dire di Eraclito, “nessun dio e nessun uomo fece, ma sempre è stato, ed è, e sarà fuoco vivo in eterno, che al tempo dovuto si accende e al tempo dovuto si spegne”. [Fr. 30]
Osserviamo che questo pensiero discende dall’annuncio di Nietzsche della “morte di Dio”, come dire l’annuncio della fine del mondo platonico-cristiano, ovvero la fine della concezione di un mondo ideale e di un orizzonte divino al di sopra del mondo umano. Sulla morte di Dio, cfr. “Un dolore infinito”, post 28 marzo 2025.
Concludiamo, riportando un brano di Heidegger, tratto da “Il detto di Anassimandro”, in “Sentieri interrotti”, (Holzwege,1950), e con due brevi annotazioni.
“L’epoca (ἐποχή) dell’essere appartiene all’essere stesso. Essa è pensata a partire dall’oblio dell’essere. Dall’epocalità dell’essere deriva la natura epocale del suo destino [Geschick] in cui è [ist] la storia autentica del suo mondo. Ogni qual volta l’essere si mantiene in sé nel suo destino, ne e-viene in maniera improvvisa e imprevedibile un Mondo. Ogni epoca della storia del Mondo è un’epoca dell’erramento.
L’essenza epocale dell’essere rientra nel carattere segretamente temporale dell’essere e caratterizza l’essenza del tempo, pensata nell’essere. Ciò che si intende di solito per “tempo” è una rappresentazione vuota del tempo, desunta dall’ente preso come oggetto. […] In tutto ciò che chiamiamo “greco”, ha luogo pensato epocalmente l’inizio dell’epoca dell’essere. Questo inizio – a sua volta, concepito epocalmente – è il mattino del destino [Geschick] nell’essere a partire dall’essere.”
Questo brano meriterebbe un discorso a parte su quello che è il pensiero di Heidegger sul Tempo, rimasto inespresso – il linguaggio filosofico non è capace di esprimerlo – nella sua opera incompiuta: “Essere e Tempo” (Sein und Zeit).
Comunque, aggiungiamo due notazioni indirette su questa ἐποχή, sospensione di giudizio sulla realtà, con prima una citazione di Hegel, che esprime in altre parole questo rapporto tra pensiero (filosofia) ed essere. “Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.”
La seconda è una citazione di Nietzsche, ed è relativa all’epigrafe e all’incipit di un suo volume: “Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali.” (1881)
“Vi sono tante aurore, che devono ancora risplendere” Rigveda. Il riferimento al pensiero orientale non era estraneo a Nietzsche: il continuo circolo dell’esistenza, da cui si aspira ad uscire, per entrare nel nulla cosciente, il Nirvana. Come abbiamo visto, la dottrina dell’eterno ritorno si ispirava a questa visione, esplicitata nell’epigrafe.
“In questo libro troviamo al lavoro un “essere sotterraneo”, uno che trivella, scava, scalza. Si vedrà, posto che si abbiano occhi per un tale lavoro di profondità – come egli avanzi lentamente, cautamente, con delicata inesorabilità, senza che si tradisca troppo l’affanno, che ogni lunga privazione d’aria e di luce comporta: lo si potrebbe perfino dire contento del suo oscuro lavoro. Non pare forse che una qualche fede lo guidi, che una consolazione lo ricompensi? Che voglia forse avere la sua lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, nascosto, enigmatico, perché sa che avrà anche il suo mattino, l sua redenzione, la sua “aurora”… Certo egli farà ritorno: non chiedetegli che cosa vuole egli là sotto, egli stesso, questo apparente Trofonio [dio ctonio] ed essere sotterraneo, ve lo dirà, quando di nuovo si sarà “fatto uomo”. Si disimpara del tutto a tacere, se così a lungo si è stati, come lui, una talpa, soli.”
Qui Nietzsche rivendica la sua solitudine di pensatore, ma in questo lavoro di scavo sotterraneo alle radici delle passioni umane, è stato accomunato a Freud e Marx. Su questo argomento si rimanda al post del 30 giugno 2023: “Il fondo enigmatico e buio”.
“Aurora” è il pensiero aurorale rivolto non alla natura, come in Heidegger ed Hegel, la fisica (filosofia) dei preplatonici, ma all’uomo o meglio alle radici dell’uomo.
“Subsequitur umbram aurora. - Alla notte segue l’aurora”. La massima sta a significare che alla notte segue il giorno, al buio la luce, in simbolo dal fondo buio della coscienza, l’inconscio, alla luce della ragione; ma sta anche a significare che questa coppia di contrari è inscindibile, e riflette quel fenomeno psichico (dell’anima), che Jung ha denominato enantiodromia: muoversi in direzione opposta. È il lato oscuro della coscienza, l’inconscio. In questa prospettiva, “le scritture aurorali” hanno la doppia ambizione: lo schiarirsi della coscienza, l’inizio di nuove creazioni artistiche.
MARIELLA SAVARANI
IL QUADRATO SEMIOTICO ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni
Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
- Non se ne va il caldo di questa estate che se ne va.
- Eh, no! Non se ne va.
- E neppure il nostro scrittore dell’alba, di cui è a noi toccato in sorte lo spettacolo (theatron).
- Decio Livio, vogliamo precisare per l’ennesima volta quest’ ultimo concetto?
- Il termine in origine, come rivela l’etimologia greca theaomai “guardare”, stava ad indicare il pubblico sulla gradinata che “guardava” la rappresentazione della tragedia sulla scena dell’arena; successivamente passò ad indicare il luogo, teatro, dove si tenevano queste rappresentazioni ed anche estensivamente lo “spettacolo” stesso. Ed invero quest’ultimo termine, in latino spectare guardare, designa allo stesso modo la “recita” in scena da parte di attori di un copione teatrale o di altro genere anche musicale o di danza.
- Da quanto hai detto, Livio, si deduce che il signore seduto là fuori, per suo diletto, intento a leggere e scrivere sul terrazzino di casa, ad ogni nuova alba, è un “recitante”.
- E noi gli “spettatori”, Nera.
- Di uno spettacolo, che trascendendo la persona in scena, rivela sullo sfondo tutta la poesia dei colori cangianti al sorgere del giorno.
- Costretti dalla fantasia del nostro poeta creatore di immagini ed esistenze irreali alla sveglia nell’ultima ora della notte, possiamo contemplare ogni volta la meraviglia di un cielo blu inchiostro, che gradatamente schiarisce, albeggiando, per rivelare subito la sua tinta azzurrina, oltre le cimase e i tetti delle case, mentre l’aurora rosata annuncia l’imminente arrivo del giorno, nella sfolgorante luce rosso oro del sole.
- E scrive di queste albe e della loro poesia, lì sul terrazzino.
- Schizzi di un autoritratto compiuto attraverso lo scambio di battute tra due dialoganti “fantasma”, noi due, rivelati dalla luce della sua “fantasia” ed in tal modo tratti dal nulla e recati nella sfera dell’esistenza.
- Sul “nulla”, Decio Livio, nutro dei dubbi, essendo noi due nullità, nel senso di esistenti privi di valore, come dire personaggi negletti che si fanno avanti, ma vengono ricacciati indietro, perché il “potere” li considera nullità.
- E non potremmo noi due, io e te, o solidale Nera, a nome di tutta l’infinità schiera delle vuote parvenze, i “negati”, gli umili e gli oppressi, rovesciare questo arrogante “potere”?
- No, non possiamo, non avendo né essendo il potere.
- Ah!
- Possiamo soltanto “servirlo”, nel nostro caso svolgere il nostro ruolo di intermediari tra la realtà per noi eterna del signorotto, che ci tiene in suo potere, ed il tempo, quello in cui vivono le nostre consimili ombre, personaggi esistenti soltanto nella realtà dei romanzi e della letteratura.
- E come?
- Vivendo nell’Evo, che è l’intermedio tra l’eternità ed il tempo e recandone l’annuncio.
- Non ho capito.
- Una sorta di tempo degli angeli, creature spirituali che vivono una eternità, l’Evo.
- Però!
- Ascolta, perplesso Livio, il “signorotto” che sta facendo?
- Legge un libro.
- E di quali argomenti tratta il testo in lettura?
- Del quadrato semiotico.
- E tu come puoi saperlo? Forse, azzardo la risposta io stesso, perché capisci immediatamente quello che accade nell’eterno e nel tempo?
- Più o meno.
- E sai dirmi di codesta figura di geometria logica?
- No, perché nell’eternità della sua lettura del quadrato semiotico, il nostro “informatore”, nel senso del potente che ci informa, dà forma e vita, ma anche conoscenza di sé e del suo mondo creato, non ha ancora capito di che si tratta.
- Un po’ duro di comprendonio, vero?
- Nera, non parlare così.
- Dici che forse un giorno, chissà come, costui si muoverà dalla soglia dell’eternità del suo ieri e del suo domani, la porta carraia, da cui si dipartono le due strade del passato e del futuro, dove ora egli sosta sentinella in disarmo?
- Ed assieme a lui sapremo anche noi del quadrato semiotico, scivolando oltre l’apparenza e gli inganni di questa sua dubbia eternità, in cui si diverte a comporre le sue scritture aurorali.
- Subsequitur umbram aurora.
- Alla notte segue l’aurora.
[N. d, B.]
Il post “Le pagine rare” del 19 marzo 2025 è uscito dal cerchio dell'apparire di questo Blog, e pertanto il mimo, "Il quadrato semiotico", è stato riprodotto qui sopra. Chi leggerà questa variazione? Il lettore, ovviamente. Quale? Quello deciso dal destino. Quale destino? Il tuo destino, bambino. Come? Un'altra volta. Ah!
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