In “Fede e sapere”, un’opera precedente alla “Fenomenologia dello Spirito”, Hegel scriveva: “Il concetto puro, ovvero l’infinito, come abisso del niente in cui ogni cosa sparisce, designa il dolore infinito come momento, dolore che fino a quel momento era apparso nella cultura soltanto come fenomeno storico e costituiva il sentimento su cui riposa la religione moderna, il sentimento che Dio stesso è morto (Pascal ne aveva dato una definizione per così dire puramente empirica nella formula: La Natura è tale che essa porta dappertutto “il segno di un Dio perduto” sia nell’uomo che fuori dell’uomo) … [A questo dolore] il concetto puro deve dare esistenza filosofica, deve dare alla filosofia l’idea della libertà assoluta e allo stesso tempo la Passione assoluta ovvero il Venerdì Santo speculativo, che già fu storico; e lo deve ristabilire in tutta la sua empia [assenza di Dio] verità e durezza. È soltanto da questa durezza – dato che il carattere più sereno, più sprovvisto di fondamento, più singolare delle filosofie dogmatiche, come delle religioni naturali, deve sparire – che la suprema totalità con tutto il suo rigore e a partire dal suo fondamento più intimo può e deve resuscitare.” La filosofia di Hegel si annuncia nella sua dimensione teologica tale quale apparirà compiutamente nella “Fenomenologia dello Spirito”. È solo partendo dalla coscienza religiosa luterana di Hegel, che si può penetrare a fondo il suo pensiero sistematizzato nella “Fenomenologia”, risalendo alla dura espressione di dolore, pronunciata da Lutero in uno dei suoi Inni. L’espressione fu ripresa da Johann von Rist (1607-1667), poeta e drammaturgo tedesco, autore di cori sacri: “O grosse Not / Gott selbst ist tot / am Kreuz ist gestorben.” “Oh grande angoscia / Dio stesso è morto / È morto sulla croce.” Si tratta di un canto liturgico per il Venerdì Santo. L’eco del grido di angoscia del Dio morto e il senso di radicale desolazione e sgomento che suscita segnano l’abbandono e l’assenza del divino dal mondo, uno smarrimento cantato poeticamente da Hölderlin. Negli anni di studio (1788-93) allo Stift, il seminario di teologia protestante di Tubinga, il poeta aveva stretto amicizia con Hegel e Schelling, assieme ai quali, secondo un aneddoto, avrebbe eretto il 14 luglio 1793 un albero della libertà per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia. Nel cantare la mancanza di Dio, Hölderlin, come rilevato da Heidegger, non nega la persistenza di un atteggiamento verso Dio da parte dei singoli e delle Chiese. Quindi, nel citare i versi della poesia “Pane e Vino”: “E perché i poeti nel tempo della povertà”, così commenta il pensiero poetico di Hölderlin, rendendo in maniera efficacia il gelo della notte mondo nell’assenza di Dio: “[Il tempo della povertà] allude all’epoca di cui facciamo ancora parte. Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli Dei. È caduta la sera. Da quando i “tre” che sono uno: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla mancanza di Dio.” Qui, in Hölderlin, il segno della perdita di Dio viene declinato in termini cristiani, ma coniugato con tutte le manifestazioni possibili di congiunzione del divino e dell’umano, il tentativo di tenere insieme il mondo greco, l’Oriente, e l’Occidente al suo tramonto, Esperia, la terra della sera.
È quest’ultima declinazione che viene letta da Heidegger: “La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo Dio e gli Dei sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.” La mancanza di Dio è la mancanza di ogni fondamento. Che accade? Quello che accade è un precipitare nell’abisso, ossia un continuo precipitare nel vuoto senza fondo. “Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve essere riconosciuto e subito fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso.” I mortali sono quelli che prima dei celesti arrivano nell’abisso. Ora, noi ci domandiamo in che cosa consiste questo abisso senza fondo (Abgrund). “– Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dal suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?” (Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125) Nessuna immagine poteva rendere meglio la notte del mondo, quella in cui è necessario accendere la lanterna anche alla chiara luce del mattino ed in cui si avverte un eterno precipitare, il vagare in un infinito nulla. Il nichilismo, quest’ospite inquietante, viene a bussare alla nostra porta, e adesso l’ospite inquietante si aggira familiarmente per la nostra casa. Siamo dunque destinati al nulla, la morte eterna? Hegel risponde di no e anche Nietzsche, Ricoeur dice che è difficile pensare questi due termini insieme. È un infinito dolore, il Venerdì Santo dello Spirito.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
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Il segno di un Dio perduto
In “Fede e sapere”, un’opera precedente alla “Fenomenologia dello Spirito”, Hegel scriveva: “Il concetto puro, ovvero l’infinito, come abisso del niente in cui ogni cosa sparisce, designa il dolore infinito come momento, dolore che fino a quel momento era apparso nella cultura soltanto come fenomeno storico e costituiva il sentimento su cui riposa la religione moderna, il sentimento che Dio stesso è morto (Pascal ne aveva dato una definizione per così dire puramente empirica nella formula: La Natura è tale che essa porta dappertutto “il segno di un Dio perduto” sia nell’uomo che fuori dell’uomo) … [A questo dolore] il concetto puro deve dare esistenza filosofica, deve dare alla filosofia l’idea della libertà assoluta e allo stesso tempo la Passione assoluta ovvero il Venerdì Santo speculativo, che già fu storico; e lo deve ristabilire in tutta la sua empia [assenza di Dio] verità e durezza. È soltanto da questa durezza – dato che il carattere più sereno, più sprovvisto di fondamento, più singolare delle filosofie dogmatiche, come delle religioni naturali, deve sparire – che la suprema totalità con tutto il suo rigore e a partire dal suo fondamento più intimo può e deve resuscitare.” La filosofia di Hegel si annuncia nella sua dimensione teologica tale quale apparirà compiutamente nella “Fenomenologia dello Spirito”.
È solo partendo dalla coscienza religiosa luterana di Hegel, che si può penetrare a fondo il suo pensiero sistematizzato nella “Fenomenologia”, risalendo alla dura espressione di dolore, pronunciata da Lutero in uno dei suoi Inni. L’espressione fu ripresa da Johann von Rist (1607-1667), poeta e drammaturgo tedesco, autore di cori sacri: “O grosse Not / Gott selbst ist tot / am Kreuz ist gestorben.” “Oh grande angoscia / Dio stesso è morto / È morto sulla croce.” Si tratta di un canto liturgico per il Venerdì Santo. L’eco del grido di angoscia del Dio morto e il senso di radicale desolazione e sgomento che suscita segnano l’abbandono e l’assenza del divino dal mondo, uno smarrimento cantato poeticamente da Hölderlin. Negli anni di studio (1788-93) allo Stift, il seminario di teologia protestante di Tubinga, il poeta aveva stretto amicizia con Hegel e Schelling, assieme ai quali, secondo un aneddoto, avrebbe eretto il 14 luglio 1793 un albero della libertà per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia. Nel cantare la mancanza di Dio, Hölderlin, come rilevato da Heidegger, non nega la persistenza di un atteggiamento verso Dio da parte dei singoli e delle Chiese. Quindi, nel citare i versi della poesia “Pane e Vino”: “E perché i poeti nel tempo della povertà”, così commenta il pensiero poetico di Hölderlin, rendendo in maniera efficacia il gelo della notte mondo nell’assenza di Dio: “[Il tempo della povertà] allude all’epoca di cui facciamo ancora parte. Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli Dei. È caduta la sera. Da quando i “tre” che sono uno: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla mancanza di Dio.” Qui, in Hölderlin, il segno della perdita di Dio viene declinato in termini cristiani, ma coniugato con tutte le manifestazioni possibili di congiunzione del divino e dell’umano, il tentativo di tenere insieme il mondo greco, l’Oriente, e l’Occidente al suo tramonto, Esperia, la terra della sera.
È quest’ultima declinazione che viene letta da Heidegger: “La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente e chiaramente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo Dio e gli Dei sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza.” La mancanza di Dio è la mancanza di ogni fondamento. Che accade? Quello che accade è un precipitare nell’abisso, ossia un continuo precipitare nel vuoto senza fondo. “Nell’epoca della notte del mondo l’abisso deve essere riconosciuto e subito fino in fondo. Ma perché ciò abbia luogo occorre che vi siano coloro che arrivano all’abisso.” I mortali sono quelli che prima dei celesti arrivano nell’abisso. Ora, noi ci domandiamo in che cosa consiste questo abisso senza fondo (Abgrund).
“– Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dal suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?” (Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125)
Nessuna immagine poteva rendere meglio la notte del mondo, quella in cui è necessario accendere la lanterna anche alla chiara luce del mattino ed in cui si avverte un eterno precipitare, il vagare in un infinito nulla. Il nichilismo, quest’ospite inquietante, viene a bussare alla nostra porta, e adesso l’ospite inquietante si aggira familiarmente per la nostra casa. Siamo dunque destinati al nulla, la morte eterna? Hegel risponde di no e anche Nietzsche, Ricoeur dice che è difficile pensare questi due termini insieme. È un infinito dolore, il Venerdì Santo dello Spirito.
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