[N. d. B.] "L'analisi strutturale" segue "Il quadrato semiotico", post qui sotto, e contiene un rimando alla filosofia estetica di Hegel, uno scritto che viene ripubblicato.
ANALISI STRUTTURALE Studio sulla struttura del testo e commento analitico delle proposizioni principali.
1) Esame del titolo e del sottotitolo Il quadrato semiotico ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
Nel titolo vengono enunciati i temi di cui tratterà il mimo, “particolare forma di commedia basata sulla rappresentazione realistica e buffonesca della vita, sviluppatasi come genere teatrale e letterario, in versi e in prosa, presso gli antichi Greci e Romani.” Nella produzione letteraria del nostro autore, in specie all’inizio, il mimo è consistito in una descrizione attuale – il termine “attuale” va inteso come tempo presente in svolgimento [1] – di alcuni momenti di vita dell’autore, un autoritratto del momento, o anche un escamotage per descriverne tratti di vita e commentarli ironicamente. In tutti i mimi scritti, i personaggi sono due, con rari interventi esterni di terzi, in genere l’autore stesso che “scendendo” in scena diventa personaggio. Il mimo è servito anche per la costruzione di trame narrative, che diventavano veri e propri racconti, a volte anche di lungo respiro. Nel mimo presente, in breve “Il quadrato semiotico”, questa espressione viene enunciata, ma di essa non si darà spiegazione, come ricavabile dalle battute finali. “Il tempo delle apparenze e degli inganni” è il tempo raccontato nel testo narrativo, come esempio del più generale tempo raccontato in storie di finzione. In questo senso si tratta di una mimesi del tempo reale, ed ecco perché è detto “tempo delle apparenze”, a cui si aggiunge un ulteriore complemento di specificazione: “degli inganni”, per sottolineare il carattere di ironia che colora la finzione. Si precisa che l’ironia di cui parliamo fa riferimento al più ampio concetto dell’ironia romantica, di cui al testo hegeliano in pubblicazione. “I due nunzi dell’evo” sono i due interlocutori, e l’evo a cui si riferiscono, dal latino aevum, dal greco αἰών, è Aion o Eone. «Πολλὰ γὰρ τίκτει Μοῖρα τελεσσιδώ/ τειρ' Αἰών τε Χρόνου παῖς», «Molte cose compie Moira, che adempie, e Aion, il figlio di Kronos» (Euripide, Eraclidi, 899-900) Si tratta del tempo in senso assoluto, adorato come una divinità nelle grandi religioni misteriche dell’età ellenistico-romana, il Tempo inteso come entità trascendente ed eterna, contrapposta a Kronos, che è la "durata" temporale misurata dall'uomo. Nella finzione del mimo, i personaggi della storia vivono nel tempo cronologico, Kronos, il tutto del tempo [2] messo a confronto con l’eternità di Aion, in cui vive l’autore, allo stesso modo in cui nella concezione aristotelica dell’Universo, questo viene diviso nelle due sfere del mondo sublunare dei mortali, soggetto alla generazione e alla corruzione, e del mondo celeste degli immortali, eterno ed incorruttibile. Una tale distinzione vuole riflettere il contrasto tra mondo di finzione, quello dei personaggi, e mondo reale, quello dell’autore, assegnando al primo, secondo la concezione aristotelica dell’Universo, lo status di mondo sublunare dei mortali, soggetto a generazione e corruzione, e al secondo la sfera celeste eterna ed incorruttibile degli immortali, i divini, i theoi.
“Dalle opinioni e dalle dottrine di Friedrich von Schlegel, si sviluppò in seguito in forme varie la cosiddetta ironia. Questa trovò il suo fondamento più profondo, per uno dei suoi lati, nella filosofia di Fichte, nella misura in cui i principi di questa filosofia furono applicati all’arte. Friedrich von Schlegel e Schelling partirono entrambi dal piano fichtiano, Schelling per superarlo compiutamente, Schlegel per svilupparlo in maniera propria e sottrarvisi. Per quel che riguarda la connessione più stretta tra le asserzioni di Fichte e l’una delle tendenze dell’ironia, ci basta mettere in rilievo il seguente punto: Fichte fissa come principio assoluto di ogni sapere, di ogni ragione e conoscenza, l’Io, anzi l’Io che rimane del tutto astratto e formale. Quest’Io, in secondo luogo, è perciò in sé assolutamente semplice e, da un lato, sono negati ogni particolarità, determinatezza, ogni contenuto in esso, essendo ogni cosa sommersa in quest’astratta libertà ed unità; dall’altro, ogni contenuto che deve valere per l’Io, è solo come posto e riconosciuto dall’Io. Ciò che è, è solo ad opera dell’Io, e ciò che è opera mia, posso egualmente Io di nuovo negare. Se ora si rimane in queste forme del tutto vuote, che prendono origine dall’assolutezza dell’Io astratto, allora niente è considerato in sé e per sé ed avente in sé valore, ma solo come originato dalla soggettività dell’Io. Ma allora l’Io può anche rimanere il signore e padrone di tutto, e, nella sfera dell’eticità, del diritto, dell’umano e del divino, del profano e del sacro, non vi è nulla che non sia da porre solo ad opera dell’Io e che perciò non possa egualmente essere annientato dall’Io. Quindi ogni essere in sé e per sé è solo parvenza, non vero e reale a causa ed opera propria, ma semplice parvenza ad opera dell’Io ed in piena balia del suo potere ed arbitrio. Il lasciar essere e il negare dipendono puramente dal beneplacito dell’Io come Io già assoluto in sé stesso. In terzo luogo, l’Io è un individuo vivo, attivo, e la sua vita consiste nel fare la propria individualità per sé, come per gli altri, nell’esternarsi e portarsi ad apparenza. Infatti, ogni uomo, in quanto vive, cerca di realizzarsi e si realizza. In rapporto al bello e all’arte, questo significa appunto vivere da artista e dare forma artistica alla propria vita. Ma io vivo, conformemente a questo principio, come ogni artista, quando ogni mio agire ed estrinsecare, per quanto riguarda un contenuto qualsiasi, rimangono per me solo parvenza ed assumono una forma che è interamente in mio potere. In tal caso io non trovo vera serietà né in questo contenuto, né nella sua estrinsecazione e realizzazione. Infatti vera serietà viene solo da un interesse sostanziale, da una cosa in sé stessa valida, la verità, l’eticità etc. – da un contenuto, che per me vale essenzialmente già come tale, cosicché io divengo a me essenziale per me stesso, solo in quanto mi sono immerso in tale contenuto e sono divenuto a lui conforme in tutto il mio sapere ed agire. In questo stadio in cui l’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, ed alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile, non può esserci una simile serietà, giacché è da attribuire validità solo al formalismo dell’Io. Può sì per gli altri essere seria l’apparenza in cui mi offro loro, qualora credano che io faccio sul serio, essi sono allora solo illusi, poveri limitati soggetti, privi dell’organo e della capacità di cogliere e raggiungere l’altezza del mio livello.
Con ciò mi si mostra che non tutti sono così liberi (cioè formalmente liberi) da vedere, in tutto ciò che per l’uomo ha per altro valore, dignità e santità, un prodotto della potenza del proprio beneplacito, in cui l’uomo può o meno attribuire cose, e lasciarsi determinare e permeare da esse. E questa virtuosità di una vita ironico artistica concepisce sé stessa come genialità divina, per cui ogni cosa è solo creatura priva di essenza, alla quale il libero creatore, che si sa libero ed esente da ogni cosa, non si lega, perché può egualmente annullarla o crearla. Chi si colloca in tale stadio di genialità divina, guarda allora agli altri uomini dall’alto in basso, li trova limitati e piatti, in quanto per essi diritto, eticità etc. valgono ancora saldamente, sono obbligatori ed essenziali. Così l’individuo che vive come artista può, sì, avere rapporti con gli altri, può avere relazioni d’amicizia, di amore etc., ma come genio questo rapporto con la sua realtà determinata, con le sue azioni particolari, come anche con l’universale in sé e per sé, è al contempo per lui un nulla, verso cui si comporta ironicamente. Questo è il significato generale della geniale ironia divina, come tale concentrazione dell’Io in sé, per cui sono rotti tutti i vincoli, e che può vivere solo nella beatitudine dell’auto-godimento. Questa è l’ironia che il signor Friedrich von Schlegel ha inventato e di cui molti dopo di lui hanno blaterato o di bel nuovo blaterano. La forma più diretta di questa negatività dell’ironia è da un lato la vanità di ogni cosa concreta, di ogni eticità, di ogni cosa avente un contenuto in sé, la nullità di ogni oggettivo e di ciò che è valido in sé e per sé. Se l’Io si arresta a questo stadio, a lui tutto appare come nullo e vano: eccetto la propria soggettività, che perciò diviene vuota e vana essa stessa. Ma d’altro canto, l’Io non si può sentire soddisfatto di questo auto-godimento, ma è destinato a diventare indigente, cosicché avverte di aver sete del sostanziale e del solido, di interessi determinati ed essenziali. Nasce allora da ciò uno stato d’infelicità unito alla contraddizione che, da un lato, il soggetto vuole certo essere nella verità ed ha desiderio di oggettività, mentre dall’altro non può liberarsi da questo isolamento, da questo ritirarsi in sé, non può sottrarsi a questa interiorità astratta insoddisfatta, ed è preso allora da quello struggimento che parimenti abbiamo visto spuntare dalla filosofia di Fichte. L’insoddisfazione per questa quiete e questa impotenza – che non può agire, che nulla può toccare, per non rinunziare all’armonia interna, e che pur con il desiderio di realtà e di assoluto, rimane tuttavia irreale e vuota, anche se in sé pura – fa sì che sorgano lo struggimento e la malattia dell’anima bella. Infatti un’anima veramente bella agisce ed è reale, mentre quel rimpianto è solo il sentimento della nullità del soggetto vuoto e vano, a cui manca la forza di sfuggire a questa vanità e di riempirsi di contenuto sostanziale.
Ora l’ironia, una volta che è stata fatta forma dell’arte, non si è accontentata di foggiare artisticamente solo la vita e l’individualità particolare del soggetto ironico, ma l’artista ha dovuto creare come prodotti della fantasia, oltre l’opera d’arte delle proprie azioni etc., anche opere d’arte esterne. Il principio di queste produzioni, le quali possono risultare pienamente soltanto nella poesia, è ancora una volta la rappresentazione del divino come ironico. Ma l’ironico quale individualità geniale consiste nell’auto-annientamento di ciò che è magnifico, grande ed eccellente; e così anche le forme d’arte obiettive dovranno manifestare solo il principio della soggettività a sé assoluta, in quanto esse mostrano che ciò che per l’uomo ha valore e dignità è un auto-annientantesi nulla. E’ per questo che non solo non vi sarebbe serietà nel diritto, nell’etico e nel vero, ma anche in ciò che è alto ed ottimo non vi sarebbe alcun valore, giacché l’alto e ottimo si negano e si annullano nel loro apparire in individui, caratteri ed azioni, e sono così l’ironia di sé stessi. Questa forma, presa astrattamente, si accosta al principio del comico, sebbene il comico, pure in questa affinità, debba essere distinto in maniera essenziale dall’ironico. Infatti il comico deve limitarsi al fatto che tutto quel che si annulla è in sé stesso un nulla, un’apparenza falsa e contraddittoria, per es. una fisima, una bizzarria, un capriccio particolare di contro ad una passione potente, od anche un principio che pretende d’essere sostenibile, o una massima che pretende di essere salda. Ma la cosa è interamente diversa quando ciò che è in effetti etico e vero, in generale un contenuto in sé sostanziale si presenta come nulla in un individuo e ad opera di esso. In tal caso un simile individuo è, nel suo carattere, nullo e disprezzabile, e anche la debolezza e mancanza di carattere ne vengono rappresentate. In questa differenza tra ironico e comico è essenzialmente in questione il contenuto di ciò che viene distrutto. Si tratta però di soggetti cattivi, incapaci, che non sanno tener fermo ad un loro fine saldo ed importante, ma vi rinunciano e lo fanno in sé distruggere. Quest’ironia della mancanza di carattere ama l’ironia. Infatti è proprio di un vero carattere da un lato un contenuto essenziale di fini, dall’altro il tener fermo a questo fine, cosicché l’individualità perderebbe la sua intera esistenza, se dovesse staccarsene e vi dovesse rinunciare. Questa saldezza e sostanzialità costituisce il tono fondamentale del carattere. Catone può vivere solo da romano e repubblicano. Ma se l’ironia viene presa come tono fondamentale della manifestazione, allora quel che è il meno artistico viene considerato come il principio dell’opera d’arte. Infatti si hanno in tal caso o figure piatte, o figure prive e di consistenza e di fermezza, in quanto il sostanziale si dimostra in essi come il nulla; o vi si aggiungono infine quello struggimento e quelle insolute contraddizioni dell’animo, cui abbiamo prima accennato. Tali manifestazioni non possono risvegliare alcun vero interesse. Da ciò anche i continui lamenti, da parte dell’ironia, sulla mancanza di senso profondo, di visione artistica e di genio nel pubblico, che non comprende queste altezze dell’ironia; il che significa che al pubblico non piacciono queste banalità in parte insipide, in parte senza carattere. Ed è bene che non piacciano queste nature prive di consistenza e nostalgiche, ed è un conforto che non vi siano di gradimento slealtà e ipocrisia e che gli uomini invece aspirino sia a veri e pieni interessi che a caratteri che rimangano fedeli ai loro importanti contenuti.” (Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1997 pp. 76-80)
LE FIGURE DEL NULLA “L’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, e alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile.” È questa la critica hegeliana all’estetica propria dell’ironia romantica, la geniale ironia divina, in cui l’autore prevarica nei confronti della sua stessa opera, nullificandola nel momento stesso in cui la pone in essere, il creatore che nega e annulla la sua creatura, sottraendole la sostanza dell’essere vero. La svalutazione hegeliana della letteratura romantica del suo tempo, e di riflesso il superamento dell’attività artistica letteraria, che in quanto arte diventa un fenomeno del passato, privo di sostanza vivente, è un giudizio di supremazia ed esclusività della verità della filosofia sulla verità della finzione. A rifletterci bene, la critica di Hegel ai romantici era una presa di distanza dell’assolutezza di verità del suo romanzo filosofico dalla relatività della finzione artistica degli altri romanzi, del romanzo in genere come forma d’arte. “Quanto a loro, i romantici fingono di non capire, continuano a rendere omaggio al Professore, ma di fatto lo ignorano. E se scrivono romanzi, è per confutare l’assunto che sta alla base dell’impresa speculativa hegeliana: la riconciliazione, la redenzione, la Versöhnung [1] come fatto compiuto. Che i romanzi appaiano (hegelianamente) necessari, e cioè che esistano, che vengano letti, che contribuiscano a formare la comune percezione degli eventi, significa che la Versöhnung filosofica, al pari della Versöhnung religiosa non è se non una stella cometa che avrà pure sfiorato la Terra, se mai l’ha fatto, ma per inabissarsi in un suo cielo remoto e togliersi dalla vista degli uomini. I quali possono avere memoria: donde la convinzione che tutto ciò che accade sia nel segno di un doppio abisso, e dica l’inferno e il paradiso, la perdizione e la salvezza, e comunque abissale pozzo senza fondo sia l’esperienza dell’uno e dell’altro. Ma possono anche averne smarrito qualsiasi traccia, quando non venga negata esplicitamente: e allora il mistero è qui, non foss’altro che la totale assenza di mistero, l’abissalità più enigmatica e inquietante è tutta qui, nel cuore di questa vita. In un caso e nell’altro, lo spazio che si è aperto tra la realtà redenta e realtà da redimere è infinito e non si vede come possa essere colmato . Infatti nonostante di tanto in tanto qualche epigono hegeliano venga ad annunciare la morte del romanzo, il romanzo gode di ottima salute. Il romanzo contiene tutte le voci del mondo, tutte le dissonanze e anche tutti i silenzi, lo spazio del romanzo contemporaneo.” (Sergio Givone, “Il bibliotecario di Leibniz”, Torino, 2005, p.16)
[1] Versöhnung, in teologia, significa “Redenzione”. Nella filosofia di Hegel e degli hegeliani, Versöhnung è la “riconciliazione” dei contrari.
‘Kde domov muj’? ‘Dov’è la mia patria?’ Non è un inno di guerra, non auspica la rovina di nessuno, canta senza retorica il paesaggio della Boemia con i suoi colli e pendii, le pianure e le betulle, i pascoli e i tigli ombrosi, i piccoli ruscelli. Canta il paese dove siamo a casa nostra, è stato bello difendere questa terra, bello amare la nostra patria (Milena Jesenskà)
Copenaghen
Bruxelles Louiza
“Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una prodigiosa marionetta realizzata dalla divinità, per gioco o per uno scopo serio, questo non lo sappiamo." (Platone, Leggi, 1, 644e)
6 commenti:
[N. d. B.] "L'analisi strutturale" segue "Il quadrato semiotico", post qui sotto, e contiene un rimando alla filosofia estetica di Hegel, uno scritto che viene ripubblicato.
ANALISI STRUTTURALE
Studio sulla struttura del testo e commento analitico delle proposizioni principali.
1) Esame del titolo e del sottotitolo
Il quadrato semiotico ovvero il tempo delle apparenze e degli inganni
Dibattito tra due nunzi dell’evo sulla discutibile eternità di certe scritture aurorali
Nel titolo vengono enunciati i temi di cui tratterà il mimo, “particolare forma di commedia basata sulla rappresentazione realistica e buffonesca della vita, sviluppatasi come genere teatrale e letterario, in versi e in prosa, presso gli antichi Greci e Romani.” Nella produzione letteraria del nostro autore, in specie all’inizio, il mimo è consistito in una descrizione attuale – il termine “attuale” va inteso come tempo presente in svolgimento [1] – di alcuni momenti di vita dell’autore, un autoritratto del momento, o anche un escamotage per descriverne tratti di vita e commentarli ironicamente. In tutti i mimi scritti, i personaggi sono due, con rari interventi esterni di terzi, in genere l’autore stesso che “scendendo” in scena diventa personaggio. Il mimo è servito anche per la costruzione di trame narrative, che diventavano veri e propri racconti, a volte anche di lungo respiro.
Nel mimo presente, in breve “Il quadrato semiotico”, questa espressione viene enunciata, ma di essa non si darà spiegazione, come ricavabile dalle battute finali.
“Il tempo delle apparenze e degli inganni” è il tempo raccontato nel testo narrativo, come esempio del più generale tempo raccontato in storie di finzione. In questo senso si tratta di una mimesi del tempo reale, ed ecco perché è detto “tempo delle apparenze”, a cui si aggiunge un ulteriore complemento di specificazione: “degli inganni”, per sottolineare il carattere di ironia che colora la finzione. Si precisa che l’ironia di cui parliamo fa riferimento al più ampio concetto dell’ironia romantica, di cui al testo hegeliano in pubblicazione.
“I due nunzi dell’evo” sono i due interlocutori, e l’evo a cui si riferiscono, dal latino aevum, dal greco αἰών, è Aion o Eone. «Πολλὰ γὰρ τίκτει Μοῖρα τελεσσιδώ/ τειρ' Αἰών τε Χρόνου παῖς», «Molte cose compie Moira, che adempie, e Aion, il figlio di Kronos» (Euripide, Eraclidi, 899-900) Si tratta del tempo in senso assoluto, adorato come una divinità nelle grandi religioni misteriche dell’età ellenistico-romana, il Tempo inteso come entità trascendente ed eterna, contrapposta a Kronos, che è la "durata" temporale misurata dall'uomo. Nella finzione del mimo, i personaggi della storia vivono nel tempo cronologico, Kronos, il tutto del tempo [2] messo a confronto con l’eternità di Aion, in cui vive l’autore, allo stesso modo in cui nella concezione aristotelica dell’Universo, questo viene diviso nelle due sfere del mondo sublunare dei mortali, soggetto alla generazione e alla corruzione, e del mondo celeste degli immortali, eterno ed incorruttibile. Una tale distinzione vuole riflettere il contrasto tra mondo di finzione, quello dei personaggi, e mondo reale, quello dell’autore, assegnando al primo, secondo la concezione aristotelica dell’Universo, lo status di mondo sublunare dei mortali, soggetto a generazione e corruzione, e al secondo la sfera celeste eterna ed incorruttibile degli immortali, i divini, i theoi.
L’IRONIA ROMANTICA
“Dalle opinioni e dalle dottrine di Friedrich von Schlegel, si sviluppò in seguito in forme varie la cosiddetta ironia. Questa trovò il suo fondamento più profondo, per uno dei suoi lati, nella filosofia di Fichte, nella misura in cui i principi di questa filosofia furono applicati all’arte. Friedrich von Schlegel e Schelling partirono entrambi dal piano fichtiano, Schelling per superarlo compiutamente, Schlegel per svilupparlo in maniera propria e sottrarvisi. Per quel che riguarda la connessione più stretta tra le asserzioni di Fichte e l’una delle tendenze dell’ironia, ci basta mettere in rilievo il seguente punto: Fichte fissa come principio assoluto di ogni sapere, di ogni ragione e conoscenza, l’Io, anzi l’Io che rimane del tutto astratto e formale.
Quest’Io, in secondo luogo, è perciò in sé assolutamente semplice e, da un lato, sono negati ogni particolarità, determinatezza, ogni contenuto in esso, essendo ogni cosa sommersa in quest’astratta libertà ed unità; dall’altro, ogni contenuto che deve valere per l’Io, è solo come posto e riconosciuto dall’Io. Ciò che è, è solo ad opera dell’Io, e ciò che è opera mia, posso egualmente Io di nuovo negare. Se ora si rimane in queste forme del tutto vuote, che prendono origine dall’assolutezza dell’Io astratto, allora niente è considerato in sé e per sé ed avente in sé valore, ma solo come originato dalla soggettività dell’Io. Ma allora l’Io può anche rimanere il signore e padrone di tutto, e, nella sfera dell’eticità, del diritto, dell’umano e del divino, del profano e del sacro, non vi è nulla che non sia da porre solo ad opera dell’Io e che perciò non possa egualmente essere annientato dall’Io. Quindi ogni essere in sé e per sé è solo parvenza, non vero e reale a causa ed opera propria, ma semplice parvenza ad opera dell’Io ed in piena balia del suo potere ed arbitrio. Il lasciar essere e il negare dipendono puramente dal beneplacito dell’Io come Io già assoluto in sé stesso.
In terzo luogo, l’Io è un individuo vivo, attivo, e la sua vita consiste nel fare la propria individualità per sé, come per gli altri, nell’esternarsi e portarsi ad apparenza. Infatti, ogni uomo, in quanto vive, cerca di realizzarsi e si realizza. In rapporto al bello e all’arte, questo significa appunto vivere da artista e dare forma artistica alla propria vita. Ma io vivo, conformemente a questo principio, come ogni artista, quando ogni mio agire ed estrinsecare, per quanto riguarda un contenuto qualsiasi, rimangono per me solo parvenza ed assumono una forma che è interamente in mio potere. In tal caso io non trovo vera serietà né in questo contenuto, né nella sua estrinsecazione e realizzazione. Infatti vera serietà viene solo da un interesse sostanziale, da una cosa in sé stessa valida, la verità, l’eticità etc. – da un contenuto, che per me vale essenzialmente già come tale, cosicché io divengo a me essenziale per me stesso, solo in quanto mi sono immerso in tale contenuto e sono divenuto a lui conforme in tutto il mio sapere ed agire. In questo stadio in cui l’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, ed alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile, non può esserci una simile serietà, giacché è da attribuire validità solo al formalismo dell’Io. Può sì per gli altri essere seria l’apparenza in cui mi offro loro, qualora credano che io faccio sul serio, essi sono allora solo illusi, poveri limitati soggetti, privi dell’organo e della capacità di cogliere e raggiungere l’altezza del mio livello.
Con ciò mi si mostra che non tutti sono così liberi (cioè formalmente liberi) da vedere, in tutto ciò che per l’uomo ha per altro valore, dignità e santità, un prodotto della potenza del proprio beneplacito, in cui l’uomo può o meno attribuire cose, e lasciarsi determinare e permeare da esse. E questa virtuosità di una vita ironico artistica concepisce sé stessa come genialità divina, per cui ogni cosa è solo creatura priva di essenza, alla quale il libero creatore, che si sa libero ed esente da ogni cosa, non si lega, perché può egualmente annullarla o crearla. Chi si colloca in tale stadio di genialità divina, guarda allora agli altri uomini dall’alto in basso, li trova limitati e piatti, in quanto per essi diritto, eticità etc. valgono ancora saldamente, sono obbligatori ed essenziali. Così l’individuo che vive come artista può, sì, avere rapporti con gli altri, può avere relazioni d’amicizia, di amore etc., ma come genio questo rapporto con la sua realtà determinata, con le sue azioni particolari, come anche con l’universale in sé e per sé, è al contempo per lui un nulla, verso cui si comporta ironicamente.
Questo è il significato generale della geniale ironia divina, come tale concentrazione dell’Io in sé, per cui sono rotti tutti i vincoli, e che può vivere solo nella beatitudine dell’auto-godimento. Questa è l’ironia che il signor Friedrich von Schlegel ha inventato e di cui molti dopo di lui hanno blaterato o di bel nuovo blaterano.
La forma più diretta di questa negatività dell’ironia è da un lato la vanità di ogni cosa concreta, di ogni eticità, di ogni cosa avente un contenuto in sé, la nullità di ogni oggettivo e di ciò che è valido in sé e per sé. Se l’Io si arresta a questo stadio, a lui tutto appare come nullo e vano: eccetto la propria soggettività, che perciò diviene vuota e vana essa stessa. Ma d’altro canto, l’Io non si può sentire soddisfatto di questo auto-godimento, ma è destinato a diventare indigente, cosicché avverte di aver sete del sostanziale e del solido, di interessi determinati ed essenziali. Nasce allora da ciò uno stato d’infelicità unito alla contraddizione che, da un lato, il soggetto vuole certo essere nella verità ed ha desiderio di oggettività, mentre dall’altro non può liberarsi da questo isolamento, da questo ritirarsi in sé, non può sottrarsi a questa interiorità astratta insoddisfatta, ed è preso allora da quello struggimento che parimenti abbiamo visto spuntare dalla filosofia di Fichte. L’insoddisfazione per questa quiete e questa impotenza – che non può agire, che nulla può toccare, per non rinunziare all’armonia interna, e che pur con il desiderio di realtà e di assoluto, rimane tuttavia irreale e vuota, anche se in sé pura – fa sì che sorgano lo struggimento e la malattia dell’anima bella. Infatti un’anima veramente bella agisce ed è reale, mentre quel rimpianto è solo il sentimento della nullità del soggetto vuoto e vano, a cui manca la forza di sfuggire a questa vanità e di riempirsi di contenuto sostanziale.
Ora l’ironia, una volta che è stata fatta forma dell’arte, non si è accontentata di foggiare artisticamente solo la vita e l’individualità particolare del soggetto ironico, ma l’artista ha dovuto creare come prodotti della fantasia, oltre l’opera d’arte delle proprie azioni etc., anche opere d’arte esterne. Il principio di queste produzioni, le quali possono risultare pienamente soltanto nella poesia, è ancora una volta la rappresentazione del divino come ironico. Ma l’ironico quale individualità geniale consiste nell’auto-annientamento di ciò che è magnifico, grande ed eccellente; e così anche le forme d’arte obiettive dovranno manifestare solo il principio della soggettività a sé assoluta, in quanto esse mostrano che ciò che per l’uomo ha valore e dignità è un auto-annientantesi nulla. E’ per questo che non solo non vi sarebbe serietà nel diritto, nell’etico e nel vero, ma anche in ciò che è alto ed ottimo non vi sarebbe alcun valore, giacché l’alto e ottimo si negano e si annullano nel loro apparire in individui, caratteri ed azioni, e sono così l’ironia di sé stessi. Questa forma, presa astrattamente, si accosta al principio del comico, sebbene il comico, pure in questa affinità, debba essere distinto in maniera essenziale dall’ironico. Infatti il comico deve limitarsi al fatto che tutto quel che si annulla è in sé stesso un nulla, un’apparenza falsa e contraddittoria, per es. una fisima, una bizzarria, un capriccio particolare di contro ad una passione potente, od anche un principio che pretende d’essere sostenibile, o una massima che pretende di essere salda. Ma la cosa è interamente diversa quando ciò che è in effetti etico e vero, in generale un contenuto in sé sostanziale si presenta come nulla in un individuo e ad opera di esso. In tal caso un simile individuo è, nel suo carattere, nullo e disprezzabile, e anche la debolezza e mancanza di carattere ne vengono rappresentate. In questa differenza tra ironico e comico è essenzialmente in questione il contenuto di ciò che viene distrutto. Si tratta però di soggetti cattivi, incapaci, che non sanno tener fermo ad un loro fine saldo ed importante, ma vi rinunciano e lo fanno in sé distruggere. Quest’ironia della mancanza di carattere ama l’ironia. Infatti è proprio di un vero carattere da un lato un contenuto essenziale di fini, dall’altro il tener fermo a questo fine, cosicché l’individualità perderebbe la sua intera esistenza, se dovesse staccarsene e vi dovesse rinunciare. Questa saldezza e sostanzialità costituisce il tono fondamentale del carattere. Catone può vivere solo da romano e repubblicano. Ma se l’ironia viene presa come tono fondamentale della manifestazione, allora quel che è il meno artistico viene considerato come il principio dell’opera d’arte. Infatti si hanno in tal caso o figure piatte, o figure prive e di consistenza e di fermezza, in quanto il sostanziale si dimostra in essi come il nulla; o vi si aggiungono infine quello struggimento e quelle insolute contraddizioni dell’animo, cui abbiamo prima accennato. Tali manifestazioni non possono risvegliare alcun vero interesse. Da ciò anche i continui lamenti, da parte dell’ironia, sulla mancanza di senso profondo, di visione artistica e di genio nel pubblico, che non comprende queste altezze dell’ironia; il che significa che al pubblico non piacciono queste banalità in parte insipide, in parte senza carattere. Ed è bene che non piacciano queste nature prive di consistenza e nostalgiche, ed è un conforto che non vi siano di gradimento slealtà e ipocrisia e che gli uomini invece aspirino sia a veri e pieni interessi che a caratteri che rimangano fedeli ai loro importanti contenuti.” (Hegel, Estetica, Einaudi, Torino, 1997 pp. 76-80)
LE FIGURE DEL NULLA
“L’artista è l’io che da sé tutto pone e dissolve, e alla coscienza nessun contenuto appare come assoluto e in sé e per sé, ma come parvenza da sé prodotta e distruttibile.”
È questa la critica hegeliana all’estetica propria dell’ironia romantica, la geniale ironia divina, in cui l’autore prevarica nei confronti della sua stessa opera, nullificandola nel momento stesso in cui la pone in essere, il creatore che nega e annulla la sua creatura, sottraendole la sostanza dell’essere vero. La svalutazione hegeliana della letteratura romantica del suo tempo, e di riflesso il superamento dell’attività artistica letteraria, che in quanto arte diventa un fenomeno del passato, privo di sostanza vivente, è un giudizio di supremazia ed esclusività della verità della filosofia sulla verità della finzione. A rifletterci bene, la critica di Hegel ai romantici era una presa di distanza dell’assolutezza di verità del suo romanzo filosofico dalla relatività della finzione artistica degli altri romanzi, del romanzo in genere come forma d’arte.
“Quanto a loro, i romantici fingono di non capire, continuano a rendere omaggio al Professore, ma di fatto lo ignorano. E se scrivono romanzi, è per confutare l’assunto che sta alla base dell’impresa speculativa hegeliana: la riconciliazione, la redenzione, la Versöhnung [1] come fatto compiuto. Che i romanzi appaiano (hegelianamente) necessari, e cioè che esistano, che vengano letti, che contribuiscano a formare la comune percezione degli eventi, significa che la Versöhnung filosofica, al pari della Versöhnung religiosa non è se non una stella cometa che avrà pure sfiorato la Terra, se mai l’ha fatto, ma per inabissarsi in un suo cielo remoto e togliersi dalla vista degli uomini. I quali possono avere memoria: donde la convinzione che tutto ciò che accade sia nel segno di un doppio abisso, e dica l’inferno e il paradiso, la perdizione e la salvezza, e comunque abissale pozzo senza fondo sia l’esperienza dell’uno e dell’altro. Ma possono anche averne smarrito qualsiasi traccia, quando non venga negata esplicitamente: e allora il mistero è qui, non foss’altro che la totale assenza di mistero, l’abissalità più enigmatica e inquietante è tutta qui, nel cuore di questa vita. In un caso e nell’altro, lo spazio che si è aperto tra la realtà redenta e realtà da redimere è infinito e non si vede come possa essere colmato . Infatti nonostante di tanto in tanto qualche epigono hegeliano venga ad annunciare la morte del romanzo, il romanzo gode di ottima salute. Il romanzo contiene tutte le voci del mondo, tutte le dissonanze e anche tutti i silenzi, lo spazio del romanzo contemporaneo.”
(Sergio Givone, “Il bibliotecario di Leibniz”, Torino, 2005, p.16)
[1] Versöhnung, in teologia, significa “Redenzione”. Nella filosofia di Hegel e degli hegeliani, Versöhnung è la “riconciliazione” dei contrari.
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